Re: Historia e Shqiperise nga koha e Enverit deri sot.
KUR NUK BIEM NE DAKORT MBI HISTORINE TONE, DO NA E BEJNE TE TJERET SI TE DUAN
ASHTU SI ME LART
OSE KESHTU
C A P 1 DALLA "LEGA DI PRIZREN" ALLA ROTTURA FRA HOXA E TITO (1878-1948)
I primi tentativi compiutamente coerenti miranti alla costituzione di uno stato nazionale d'Albania risalgono a non molto tempo prima dell'istituzione di un protettorato internazionale (1912), stabilito dopo lo scoppio della prima guerra balcanica per evitare che gli eserciti bulgaro, montenegrino e serbo occupassero il territorio shipetaro. Ancora nel 1878, gli albanesi vivevano in uno stato di accentuata frammentazione sia politica che linguistica. Al nord, i gruppi "Gheg" (clan guerrieri decisamente arretrati dal punto di vista sia sociale che culturale) temevano le popolazioni slave, mentre al sud le "elites" di ceppo "Tosk" vedevano nella chiesa ortodossa e, soprattutto, nell'influenza greca le principali minacce alla relativa autonomia goduta dai quattro "vilayet" a maggioranza etnica albanese inseriti all'interno della struttura imperiale della "Sublime Porta". "Per difendere le terre albanesi" nacque, così, nel giugno del 1878, ad opera delle sparuta "intellighentsija" locale, la Lega di Prizren, sciolta, poco dopo, dalle autorità ottomane. Alla luce della mancanza di una tradizione linguistica scritta comune, della numerosità dei dialetti locali e della notevole multiformità religiosa (islam diffuso ovunque sul territorio albanese, cattolicesimo presente al nord ed ortodossia al sud), il tentativo unitario della Lega si configura, però, soltanto come "conservatore- non propositivo" in quanto semplice reazione ai "pericoli esterni" messa in atto da "classi dirigenti" sottosviluppate e gelose del proprio potere. Altri gruppi di intellettuali batterono, invece, una strada alternativa, favorendo l'apertura delle prime scuole al sud e riscoprendo i miti storici unificanti (come quello degli Illiri e di Giorgio Castriota-Skanderberg). L'evento decisivo, però, fu lo scoppio della prima guerra balcanica. La sconfitta che l'Impero Ottomano subì al termine di essa diede a numerosi delegati, provenienti dal sud, la possibilità di riunirsi a Valona, di proclamare l'indipendenza e di eleggere Ismail Kemal capo di uno stato che però, voluto dalle grandi potenze solo per riequilibrare i paesi slavi dell'area, dovette rinunciare a quasi metà del territorio balcanico abitato da albanesi (al nord, la rinuncia incluse il Kosovo e la Macedonia sud-occidentale, al sud Tirana dovette fare a meno dell'Epiro meridionale). Nel corso della prima guerra mondiale poi, l'Albania venne trasformata nel campo di battaglia per le truppe di ben sette eserciti prima di venire occupata da Serbia, Montenegro ed Italia e vedere la propria indipendenza confermata dalle grandi potenze nel 1920. Dalla metà della medesima decade, salì al potere Ahmed Zogu, capoclan "gheg" del nord, il quale, nel 1928, si auto-proclamò re cercando, anche attraverso la centralizzazione amministrativa, di promuovere la crescita di una identità nazionale la quale, però, nulla potè per fronteggiare l'invasione italiana del 1939. Dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale, l'Italia fascista si guadagnò il sostegno di una consistente fetta della popolazione locale, annettendo all'Albania il Kosovo e le altre zone etnicamente albanesi dei Balcani (parte della Macedonia ed ampie fasce dell'Epiro), creando, così, la "Grande Albania". Ciò, però, non impedì il nascere di una resistenza armata locale che prese le sembianze del "Balli i Kombetar" (formazione di estrazione sociale e di obbiettivi politici nazional-borghesi) , del movimento "Legaliteti" (di matrice monarchico-zoghista) e del Fronte di Liberazione (di ispirazione social-comunista e diretto da Enver Hoxa) il quale, numericamente piuttosto consistente, particolarmente forte nel sud del paese e beneficiario dell'aiuto proveniente dai partigiani jugoslavi di Tito, dopo il crollo italiano (settembre 1943) ed il ritiro tedesco ( ottobre 1944), non incontrò particolari difficoltà nel prendere il potere (Rilevante, però, fu anche il fenomeno del collaborazionismo. Non pochi albanesi, infatti, "premiarono" le politiche, prima di tutto, anti-slave di Italia fascista e Germania nazista dando vita, perfino, alla divisione S.S. "Skanderberg"). Le condizioni dell'Albania alla conclusione del secondo conflitto mondiale sono, però, disastrose. Gli anni dell'amministrazione italiana (1939-1943) non hanno inciso sulla struttura sociale del paese che mantiene intatto il carattere agro-pastorale-arcaico della sua economia. I contadini a rappresentano l'85% della popolazione lavorativa, il 30% della terra è in mano a sole 150 famiglie, l'industria è praticamente inesistente. E' la Jugoslavia di Tito ad assicurare assistenza ed amicizia (Trattato Tirana-Belgrado del 9 luglio 1946): in parte per "addolcire" la "mancata reintegrazione", per lo meno, del Kosovo nel corpo dello stato albanese ma, anche, per cominciare ad intessere relazioni bilaterali che Tirana, però, da quasi subito non mancherà di trovare eccessivamente stringenti. Ben presto, quindi, le relazioni jugo-albanesi peggiorarono sensibilmente ed l'1 luglio 1948, in seguito alla rottura fra Tito ed il Cominform, il P.C. albanese si schierò con Mosca. Tirana espulse i tecnici jugoslavi ed il ministri degli interni, nonché capo della polizia segreta, Koci Xoxe, "agente al servizio di Tito" venne fatto fucilare (11 giugno 1949) in quanto "capo di una fazione anti-nazionale e revisionista". L'azione repressiva ed accentratrice di Hoxa si sviluppò, però, non solo all'interno del partito ma anche al di fuori di esso: contro le gerarchie ecclesiastiche (quelle cattoliche in primo luogo) e contro i proprietari terrieri (nazionalizzazione delle terre).
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C A P 2 IL "SOCIALISMO REALIZZATO" ALBANESE: TRA "MODELLO SOVIETICO", "VIA CINESE" E CHIUSURA VERSO L'ESTERNO (1948-1992)
Consolidato il proprio potere attraverso l'eliminazione del "Legaliteti", del "Balli i Kombetar" e degli oppositori interni al partito, come pure tramite un'offensiva anti-religiosa a tutto campo (no all'educazione religiosa nelle scuole ed attacco frontale al clero cattolico, ortodosso e musulmano), Hoxa, dopo la rottura con Tito, spinse ancor più l'Albania nell'orbita sovietica. Intrattenne cordialissimi rapporti con Stalin ed introdusse, con sempre maggior vigore, il "modello moscovita" (collettivizzazione delle terre, produzione agricola cooperativa ed industria pesante per lo più legata al settore estrattivo) nell'ambito della "divisione internazionale del lavoro" propugnata dal Comecon. La conferenza della "C.E.E. socialista" del 13-15 maggio del 1959, tenutasi proprio a Tirana, sembrò rinsaldare ulteriormente i rapporti fra Albania ed U.R.S.S. (dopo le aspre polemiche sorte in seguito al XX° congresso del P.C.U.S. ed alla normalizzazione delle relazioni Mosca-Belgrado) e tale buono stato di saluta della diplomazia shipetaro-sovietica fu suggellato, a quattro anni dall'adesione albanese al Patto di Varsavia, dalla visita di Nikita Krusciov a Tirana (25 maggio-4 giugno 1959) la quale ebbe come risultati più tangibili, in cambio di un prestito di 300 milioni di rubli, la cessione ai sovietici del controllo totale delle forza armate del piccolo paese balcanico e l'installazione di una basa navale di Mosca a Valona. "L'idillio riconquistato" durò, però, poco. La nuova attenzione sovietica alla redditività degli investimenti effettuati in area Comecon, la richiesta di una normalizzazione dei rapporti jugo-albanesi (interpretata a Tirana come una minaccia all'interesse e soprattutto all'indipendenza nazionale), la richiesta di cambiare alcuni dirigenti ai vertici del P.d.L.A. (Partito del lavoro Albanese, nuova denominazione del P.C. albanese a partire dal novembre del 1948) e quella di installare missili nella zona di Butrinto (di fronte a Corfù) convinsero Hoxa a distaccarsi dal protettore sovietico. Il P.d.L.A. mosse forti critiche all' U.R.S.S. durante la Conferenza di Mosca del novembre 1960, alla presenza di tutti i rappresentanti dei P.C. mondiali, e virò verso la Cina in occasione, sia del proprio IV° congresso del febbraio del 1961, che della successiva serie di accordi economico-commerciali Tirana-Pechino concernenti l'assistenza tecnica cinese nel settore chimico, elettrico, metallurgico ed edilizio. Negli anni fra il 1962 ed il 1965, l'alleanza Albania-Cina portò ad un interscambio globale di circa 100 milioni di dollari annui, dei quali 65 di esportazioni cinesi (macchine agricole, motori, trattori, insetticidi) e 35 di esportazioni albanesi (minerali ferrosi, cromo, nichel, bitume, petrolio). Sul piano militare, gli impianti missilistici, come tutte le strutture offensive e difensive shipetare (inclusa la base navale di Saseno), passarono dal controllo sovietico a quello cinese; permettendo così a Pechino di inserirsi fra Balcani e Mediterraneo centro-occidentale in funzione sia anti-U.S.A. che anti-Unione Sovietica. Con il V° congresso del P.d.L.A., 1 novembre 1966, fu avviata, sull'esempio maoista, una "rivoluzione culturale" la quale, oltre all'abbattimento degli stipendi più alti fino a non superare il rapporto1 - 2,08 rispetto ai più bassi, ebbe come effetti principali: la riduzione degli appezzamenti personali a 0,11 ha per famiglia (con lo scopo di abolire definitivamente la conduzione individuale della terra in favore delle cooperative) ed una rimarchevole recrudescenza della lotta anti-religiosa. Il 22 novembre 1967, Hoxa emanò un decreto che vietava la costituzione di qualsiasi organizzazione a carattere religioso e che delegava lo stato a svolgere propaganda ateista. L'Albania fu, così, dichiarata "primo stato ateo del mondo". Durante il loro VI° congresso (1-7 novembre 1971), i comunisti albanesi espressero alla Cina la loro solidarietà e vicinanza ideologica e politica (condanna del "revisionismo jugoslavo", dell' "imperialismo statunitense" e del "social-imperialismo" sovietico) ma l'alleanza sino-shipetara, prima, scricchiolò in seguito alle aperture fra Pechino e Washington (1972-1973 Kissinger e Nixon nella capitale cinese), poi, fu sottoposta a notevole pressione con la morte di Zhou-En-Lai e Mao (1976) ed, infine, crollò del tutto sotto il peso delle "4 Modernizzazioni" di Deng-Xiao-Ping (1978); senza, peraltro, dimenticare, il disappunto per la ripresa dei contatti sino-sovietici sulle frontiere in Asia e per l'atteggiamento non certo ostile che la Repubblica Poplare aveva nei confronti della Jugoslavia. Dopo il "divorzio" dalla Cina, Hoxa scelse l'autarchia. Con la nuova costituzione del 1976, l'Albania diventava una "Repubblica Popolare Socialista" le cui funzioni erano assolte dal P.d.L.A., unico organo preposto ad esercitare la "dittatura del proletariato" contro "imperialismo" e "revisionismo". Il paese era governato dai 250 deputati dell'Assemblea del Popolo (eletta con lista unica ogni 4 anni) e dal consiglio dei ministri. Ma, di fatto, il potere era detenuto dall'ufficio politico del P.d.L.A. e dal suo segretario Enver Hoxa. La nuova costituzione vietava, inoltre, ogni forma di collaborazione economica con l'estero che non fosse semplice scambio commerciale. Sporadiche relazioni vennero intrattenute fra il 1978 ed il 1985 soltanto con la Jugoslavia (nonostante il doppio problema del Kosovo e della Macedonia sud-occidentale), con la Romania di Ceaucescu e con l'Iran di Khomeini. Onde, poi, impedire una "possibile invasione" dell'Albania e qualsivoglia cedimento del "fronte interno" , Hoxa, prima, impose la costruzione, in tutto il paese, di bunker e fortini e, successivamente, esercitò una nuova stretta repressiva, culminata, nel dicembre del 1981, nella eliminazione di Mehmet Sheu (presidente del consiglio dei ministri fin dal 1954 e promotore della "rivoluzione culturale" albanese del 1966), reo "di essersi messo a capo di un gruppo anti-partito" contrario alla scelta isolazionista. Quasi a sigillare l'intangibilità della chiusura di Tirana verso il mondo, non può essere certo dimenticato come in occasione dell'ultimo Congresso del partito al quale partecipò prima di morire, Hoxa avesse pronunciato, nel proprio discorso, la parola "patria" per 28 volte, stabilendo che "la nostra religione è l'Albania". Alla sua morte (aprile 1985), si aprì una lotta di successione, interna al P.d.L.A., fra una corrente di "fedelissimi" ed un'ala più aperta alle istanze di rinnovamento guidata, quest'ultima, dall'ideologo del Ramiz Alia. (Sempre nel 1985, ma a dicembre e quasi ad anticipare "future tendenze", 6 cittadini albanesi, i fratelli Popa, si rifugiano presso l'ambasciata italiana a Tirana chiedendo asilo politico. Una lunga trattativa si risolveva, infine, nel maggio 1990, in senso favorevole ai 6 protagonisti). Divenuto primo segretario del P.d.L.A. (novembre 1986) e capo dello stato (febbraio 1987), Alia, pur avendo avvertito la necessità di riallacciare i rapporti economici con l'occidente, cercò di mantenere il paese sulla strada della "conservazione comunista" ma le proteste di massa della seconda metà del 1990, sull'onda dei mutamenti d' "oltrecortina", causarono un urto troppo forte per un apparato in difficoltà il quale, giocoforza, non potè che cedere. Tra la fine del 1990 e l'inizio del 1991 quindi, venne ripristinata la libertà religiosa, venne resa più facile la concessione dei passaporti, fu ammessa la conduzione agricola individuale, venne istituito il voto segreto, fu autorizzato il pluripartitismo. Una grave crisi agricola, causata, anche, dal sabotaggio messo in atto da una parte dei direttori delle aziende statali e collettive, ormai in procinto di essere esautorati vista la imminente re-introduzione della proprietà privata, unita al fortissimo desiderio di toccare con mano il vicino "Eldorado" italiano, diffuso nelle case albanesi dai nostri canali televisivi, segnò il 1991 e spinse decine di migliaia di persone (a febbraio e ad agosto in particolare) ad affollare improbabili natanti in rotta per l'Italia (fungendo, così, da "avanguardia" di un'onda tuttora non placatasi), mentre il P.S.A. (Partito Socialista Albanese, ex-P.d.L.A.), il Partito Democratico, quello Social-Democratico, quello Repubblicano e quello dei Contadini davano vita ad una serie di governi di transizione (Nano, Bufi, Agnati) in vista delle elezioni del 1992.
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C A P 3 I DIFFICILI ANNI NOVANTA (1992-2001)
In un paese in preda al caos (P.I.L. dimezzato, inflazione al 250%, crisi agricola, blocco di ogni attività lavorativa in attesa dell' "automatica ricchezza prodotta dalla mera introduzione del libero mercato", saccheggio di beni e risorse comuni), le consultazioni elettorali politiche del marzo 1992 vengono vinte dal Partito Democratico di Sali Berisha il quale, il 9 aprile successivo, subentra a Ramiz Alia alla presidenza dello stato. Il programma economico del neonato governo prevede il pieno ossequio alle direttive delle autorità economiche dell'occidente capitalistico (F.M.I. e Banca Mondiale, prima di tutto) incontrando, per questo, il favore della netta maggioranza della popolazione. La massima priorità generale, infatti, sembra essere diventata il più rapido raggiungimento possibile del più consistente benessere economico indivuduale possibile. Si assiste, inoltre, ad un chiaro "revival" religioso anche se è "l'albanesità" il vero tratto unificante e distintivo della popolazione: un nazionalismo indubbiamente intenso ma, si badi bene, inteso in senso "identitario" e "clanico" , alieno da qualunque implicazione relativa al concetto di bene comune. L'Italia è il paese di riferimento. E' la più vicina fra le nazioni prospere. Forte del 62% ottenuto il 22 marzo, i Democratici di Berisha, al potere fino al marzo del 1997, fino cioè alla nascita dl governo di coalizione diretto dal socialista Bashkim Fino, largheggia intermini di "laissez-faire". Viene smantellata la "Sigurimi" (polizia politica), permesso il libero commercio, ridistribuita la terra ai privati, vengono licenziati 200.000 lavoratori del ramo industriale (una famiglia su 4 è colpita da tale provvedimento), permessi i reclami dei proprietari ante-nazionalizzazione (enorme il caos che ne deriva), crolla lo stato sociale. In un clima da "resa dei conti", hanno luogo, tra gli altri, i processi contro la vedova Hoxa, contro Ramiz Alia e contro Fatos Nano (ora leader del P.S.A.). Dal 1993, poi, è, inoltre, riscontrabile una crescente intolleranza nei confronti della minoranza di cultura greca (concentrata nel sud del paese) al cui partito, "Omonia", viene vietata la rappresentanza parlamentare nel quadro, sia, di un uso spregiudicato, ma "generico e consueto", della carta etno-nazionale (calcolo, da sempre, altamente remunerativo in termini di aumento del proprio consenso elettorale, almeno a breve termine), sia di un più mirato risentimento anti-ellenico; del resto non del tutto peregrino (rivendicazioni greche sull'Albania meridionale-"Epiro del Nord" e trattamento discriminatorio subito dagli immigrati albanesi in Grecia). Il 6 novembre 1994, il referendum sulla costituzione promosso da Berisha, impossibilitato a cambiare l'assetto istituzionale del paese in senso ancor più marcatamente presidenzialista, liberista e nazionalista, vista la mancanza della necessaria maggioranza parlamentare dei 2-3, dà, indubbiamente ma anche inaspettatamente, un risultato negativo per il presidente. Il rifiuto del suo progetto di riforma, lo spinge verso una politica repressiva ed autoritaria: moltiplicazione del numero dei poliziotti, torna la polizia segreta (ora denominata "Shik"), estromissione dei dipendenti pubblici non filo-governativi, controllo totale sulla televisione di stato, tentativo (però solo parzialmente riuscito) di subordinare la magistratura al controllo politico. In linea con tale svolta, le elezioni politiche della primavera del 1996, in seguito ai cui risultati il Partito Democratico otteneva 122 seggi su 140, risultavano costellate da soprusi e brogli a danno dell'opposizione di sinistra. Forte di tale successo, Berisha sembrava non avere più ostacoli politici ma, meno di un ano dopo, sarebbe stata l'economia (o meglio, il suo crollo) a scardinarne i progetti. Dal 1992 al 1997, lo stato dell'economia albanese mostra una doppia faccia. Gli ottimi risultati macro-economici (bassa inflazione, deficit contenuti, tasso di crescita annuale del P.I.L. non di rado superiore al 10%) hanno scarso riscontro nella società. Nel 1996, infatti, non erano ancora stati recuperati i livelli produttivi dell'ante-1990, scarsissimi erano gli investimenti, disastroso si mostrava lo stato delle infrastrutture, impoverite si ritrovavano ampie fasce della popolazione. Non considerando un'agricoltura di sussistenza (o poco più) ed un diffusissimo quanto "strutturalmente irrilevante" piccolo e piccolissimo commercio (caffè, chioschi, compravendita di automobili, esercizi commerciali al dettaglio, etc…), tre sono state le fonti di reddito di cui l'Albania ha goduto:le rimesse degli emigrati, gli aiuti internazionali, le attività illegali (contrabbando, droga, armi e traffico di esseri umani); con le, successivamente famigerate, finanziarie (Vefa, Xhaferri, Silva, etc…) a fungere da "irreale moltiplicatore" del denaro circolante, almeno dal 1993. In seguito al loro "crack", cominciato nel novembre del 1996, si calcola che circa il 70% delle famiglie albanesi abbia perso il proprio denaro, per lo più gente comune. La rabbia popolare, subito esplosa, si è rivolta principalmente contro il governo e contro Berisha. Le finanziarie, infatti, erano state largamente sponsorizzate dalle autorità: soprattutto attraverso spot gratuiti alla televisione di stato ed attestazioni di pubbliche di fiducia. Nonostante nessun esponente politico avesse espresso dubbi su di esse, le responsabilità del Partito Democratico al potere parvero immediatamente le più gravi alla luce della assoluta mancanza di regole e controlli (rimasero, infatti, inascoltati i relativi avvertimenti di Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale del dicembre 1995 e del settembre 1996). In Albania, le finanziarie divennero un fenomeno talmente assodato e normale che ogni dubbio sulla loro affidabilità era semplicemente non prospettabile. Chi aveva investito 1000 $ in esse godeva di 100-200 $ di rendita al mese a paragone di uno stipendio medio oscillante fra i 40 ed i 90 $. Il lavoro venne, così, a consistere nello spostamento dei propri risparmi verso le finanziarie in quel momento più allettanti. Molti vendettero case, terreni ed animali onde trasformare ogni loro proprietà in rendita da investire. L'illusorio miglioramento della vita materiale, dovuto al flusso di denaro circolante moltiplicato dalle finanziarie, fece crescere la fiducia in esse anche se l'aggiungersi continuo di nuovi clienti alla "catena di S. Antonio" poteva soltanto dilazionare il comunque inevitabile momento della bancarotta. La rivolta scuote il fragile assetto statale albanese fin dalle molto pericolanti fondamenta e trova il proprio epicentro nelle principali città della parte meridionale del paese (Valona, Saranda, Argirocastro, Elbasan): estremamente motivate in tal senso dal punto di vista sia materiale (più benestante, il sud del paese ha potuto investire più danaro in finanziarie più spregiudicate e quindi ne è risultato maggiormente colpito) che politico (al sud "tosk" è forte un P.S.A. a sua volta erede di un P.d.L.A. storicamente contrassegnato da una chiara preminenza meridionale ereditata, quest'ultima, dal Fronte di Liberazione attivo contro Italia fascista e Germania nazista ). Caserme e carceri vengono rapidamente svuotate (permettendo, fra l'altro, la liberazione di Ramiz Alia e di Fatos Nano), le autorità perdono quasi immediatamente il controllo di metà del paese, mentre anche al nord ("gheg", area operativa della resistenza non-comunista ed ora prevalentemente "berishano") il potere, con probabile funzione ammonitrice rispetto ad eventuali tentativi di "marce su Tirana" da parte dei "sudisti", va in mano a "bande di insorti". Sottoposto a fortissime pressioni interne ed internazionali, Berisha, l'11 marzo 1997, affida la guida di un ormai inevitabile "governo di riconciliazione nazionale" al socialista Bashkim Fino. La situazione è contrassegnata da uno stato di anarchia pressoché generale ed all'interno di essa, dalla contrapposizione economico-politica, non è certo disgiunto un fortissimo elemento puramente criminale. Il P.S.A. vince le elezioni politiche del 29 giugno successivo: Rexhep Mejdani è eletto presidente della repubblica, mentre a quella del consiglio va Fatos Nano. A testimonianza, però, del permanentemente tormentato clima politico interno albanese, anche quest'esecutivo avrà vita breve. L'11 settembre del 1998 viene, infatti, ucciso Azem Haidarj, leader del Partito democratico e stretto collaboratore di Berisha, e del 13, giorno in cui l'avvenimento viene reso noto, a Tirana, ma la tensione esplode anche in altre zone dell'Albania, gli attivisti del partito della vittima attaccano le sedi del governo, della televisione di stato, di vari ministeri. La contrapposizione fra Berisha (del quale, da parte socialista, si vorrebbe l'arresto "per reati di terrorismo") ed il capo dell'esecutivo ("mandante morale"dell'assassinio, secondo l'opposizione) è altissima ed anche se il Partito Democratico non ottiene la cacciata dei socialisti dal governo, Nano deve comunque abbandonare la poltrona di premier e cederla al segretario del P.S.A., Pandeli Majko, che il 2 ottobre successivo vara il nuovo gabinetto. Nel corso del 1999, l'intero corso della vita, politica e non, albanese è stata pesantemente condizionata dalle vicende del Kosovo. A partire da aprile, il problema centrale è stato gestire l'arrivo di masse di profughi kosovari in fuga dalla guerra: un fenomeno già manifestatosi precedentemente ma che, con l'inizio dei bombardamenti N.A.T.O. sulla Federazione Jugoslava, ha assunto dimensioni enormi ed inaffrontabili senza l'aiuto internazionale. La questione del Kosovo ha causato un causato un notevole rafforzamento dei sentimenti di solidarietà nazionale ed il Partito Democratico, dopo mesi di boicottaggio successivi all'assassinio di Haidarj, ha riportato i propri deputati in parlamento ed ha sostenuto il governo Majko. Alla conclusione della crisi però, si sono evidenziate divergenze in merito alla questione kosovara. Mentre il P.S.A. si dichiarava non favorevole, almeno a parole, ai progetti pan-albanesi prospettati durante il conflitto, Berisha esprimeva, invece, il proprio assenso alla "graduale costruzione di una Federazione Albanese dei Balcani". Fluttuante anche la situazione interna ai due principali partiti politici. L'opposizione anti-Berisha dentro il Partito Democratico, guidata da Genc Pollo, non è riuscita a scalzare l'ex-presidente dalla carica di segretario e questi ha quindi proseguito nella politica di boicottaggio parlamentare in segno di protesta contro "l'insabbiamento" delle indagini sull'omicidio di Hajdari. In ambito socialista, invece, "l'europeo" e "modernizzatore" Majko è stato sconfitto dall'ala più "tradizionale" che ha rilanciato Nano alla segreteria ed ha costretto il giovane premier a rassegnare venendo, però, sostituito da Ilir Meta sulla base di una piattaforma politico-programmatica di continuità con il precedente esecutivo. Una continuità premiata, alle elezioni politiche della primavera del 2001, da una chiara scelta dell'elettorato in favore del P.S.A. il cui successo è stato, però, contestato dal Partito Democratico in maniera piuttosto dura. Dopo la crisi del 1997, il 1998 e la prima parte del 1999 hanno costituito un buon periodo per l'economia albanese (calo dell'inflazione e del deficit come % del P.I.L.) ed anche le conseguenze della guerra fra Federazione Jugoslava e N.A.T.O. , esiziali dal punto di vista logistico-organizzativo, non hanno influito più di tanto sul quadro economico generale in quanto le relative spese sono state sostenute dalla comunità internazionale. Nonostante gli esecutivi Majko e Meta abbiano proseguito con la privatizzazione, iniziato una politica di lotta alla corruzione, riformato il sistema bancario, favorito l'entrata in vigore di un nuovo codice commerciale, portato avanti le procedure per l'ingresso di Tirana nel W.T.O. e migliorato le relazioni commerciali con U.S.A. ed Unione Europea. Evidentissime, però, restano la povertà e l'arretratezza del paese, come pure la forza della criminalità organizzata legata al contrabbando ed al traffico di armi, droga ed esseri umani. La politica estera dell'Albania del dopo-1990 è indubbiamente mutata rispetto al quasi totale isolamento che la caratterizzava durante i periodi soprattutto di Hoxa e poi di Alia. Prima del cambio di assetto politico-sociale, Tirana intratteneva rapporti con pochissimi stati, per lo più geograficamente distanti, nel timore che un'eventuale partnership potesse trasformarsi in un protettorato (Cina ultimo-maoista, Iran del dopo-1979, Romania dell'ultimo Ceaucescu). Al posto dei bunkers, si fa ora uso della "Partnership for Peace" e del "Patto di Stabilità per l'Europa sud-orientale" ma le preoccupazioni per il "supremo interesse nazionale" permangono comunque. Con Hoxa ed Alia, esso veniva tutelato tramite rotture clamorose e forti dosi di isolazionismo, dal 1992 in poi con la moltiplicazione delle alleanze (Italia, Germania, U.S.A. , Turchia) in vista dell'obiettivo di fondo: "l'approdo europeo ed occidentale". Tesi invece, anche a causa del tasso di natalità albanese, il più alto d'Europa, i rapporti con i vicini con cui l'Albania condivide confini territoriali, ovvero: Federazione Jugoslava, Macedonia e Grecia. Lo stato negativo delle relazioni con Belgrado e Skoplje è dovuto alla difficilissima soluzione dell'intricatissima "questione shipetara" nei Balcani: 100.000 mila albanesi vivono, infatti, in Montenegro ed alla stessa etnia appartenevano, prima dell'aprile del 1999, i 9-10 della popolazione del Kosovo ed appartiene, attualmente, il 30% circa di quella macedone. Quello non così burrascoso, per quanto non certo idilliaco, di quelli con la Grecia è causato, invece, sia dalle rivendicazioni elleniche sul cosiddetto "Epiro del nord"-Albania del sud (territorio abitato in prevalenza da una discriminata popolazione di lingua e-o cultura greca) che dal trattamento non certo ideale riservato dalle autorità di Atene agli immigrati provenienti dal piccolo paese balcanico (senza poi contare i reciproci tentativi di strumentalizzazione relativi alla presenza in territorio ellenico di circa 200.000 greci albanofoni ma di coscienza etnica fedele ad Atene). L'Italia è lo stato con il quale l'Albania del dopo-socialismo reale ha intrattenuto i rapporti più intensi. Alla fine del 1990, per cercare di evitare esodi albanesi verso il nostro paese, Roma lancia l' "Operazione Pellicano" che salva l'Albania dalla fame e, contemporaneamente, inizia a provvedere al controllo delle coste. Il commercio estero dell'Albania vede l'Italia, in saldo attivo, al primo posto sia per quanto concerne le importazioni (40%) che le esportazioni (51%). Gli investimenti degli imprenditori italiani ammontano, più o meno, al 70% del totale degli investimenti esteri nel paese con le imprese italiane che danno lavoro a 60.000 albanesi circa. Per ovvie ragioni geo-politiche, l'Italia non può considerare l'Albania come un paese qualunque e, proprio per questo, settori interi dell'apparato statale albanese (dalla magistratura alla polizia) vengono riorganizzati con l'assistenza italiana e la nostra ambasciata a Tirana, sede più che negletta fino al 1992, diventata fondamentale per ogni nostra attività oltre l' Adriatico. La seconda tappa principale dell'aiuto italiano a Tirana comincia nella primavera del 1997 quando, a seguito delle conseguenze della crisi delle finanziarie sia interne per l'Albania che sui flussi migratori verso le nostre coste, Roma ottiene dal Consiglio di Sicurezza dell'O.N.U. l'autorizzazione a guidare una missione di pace, denominata "Alba", alla quale partecipano anche contingenti militari francesi, greci, sloveni, rumeni, spagnoli, turchi ed ungheresi. La missione in questione otterrà la stabilizzazione del piccolo paese balcanico ma i rinnovati esodi della primavera del medesimo anno, problema, peraltro, ancora aperto, contribuiranno a peggiorare la già non certo positiva immagine che l'opinione pubblica italiana ha degli immigrati albanesi, solitamente associati al mondo della criminalità più o meno organizzata (ciò nonostante anche episodi indubbiamente inquietanti come l'annegamento di alcune decine di clandestini a causa della collisione del natante a bordo del quale erano stipati, la "Kater i Redes", con una nave militare italiana). Confermata nelle proprie direttrici fondanti, la politica estera albanese del periodo 1998-2001 è stata assorbita in prima linea dagli sviluppi delle molteplici crisi balcaniche. Pur proseguendo nella propria cautela (per lo meno tanto subita quanto voluta) rispetto alle questioni degli albanesi d'oltre confine, Tirana ha colto nella guerra del Kosovo, prima, e nell'ancor non conclusasi tormentata vicenda macedone, poi, l'occasione per internazionalizzare il proprio problema nazionale e per stringere ulteriormente i rapporti con Europa occidentale e Stati Uniti. L' "Operazione Arcobaleno", componente italiana dello sforzo congiunto internazionale volto a sostenere il paese alle prese con imponenti masse di profughi in fuga dal conflitto, ha rinsaldato i rapporti Roma-Tirana nel quadro di un miglioramento delle relazioni estere albanesi quasi generale (teso, infatti, rimane il clima fra Albania e Federazione Jugoslava come pure fra Albania e Macedonia). Dirompente, inoltre, prosegue lo scontro frontale fra Sali Berisha ed i suoi avversari socialisti. Una lotta senza esclusione di colpi, o quasi, che mina fortemente la stabilità interna del paese. Esemplare rispetto a quanto appena sostenuto, sono, tanto, il breve arresto dell'ex-presidente alla fine di novembre del 2000, quanto, la sua successiva e rapidissima liberazione dopo l'assalto sferrato dai suoi sostenitori al tribunale che lo aveva condannato in seguito alle violente manifestazioni che il Partito Democratico aveva organizzato per contestare il successo elettorale socialista alle elezioni amministrative del mese precedente.
(Giovanni Salati)