Letra nga Amerika e Jugut

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Primus registratum
Re: Letra nga Amerika Latine

</font><blockquote><font class="small">Citim:</font><hr />
Jorge Louis Borges:

Triade


Il sollievo che avrà provato Cesare la mattina di Farsaglia,
pensando: È oggi la battaglia.
Il sollievo che avrà provato Carlo Primo nel vedere l'alba sui
vetri e pensando: È oggi il giorno del patibolo, del corag-
gio e della mannaia.
Il sollievo che tu e io proveremo nell'istante che precede la
morte, quando il destino ci libera dalla triste abitudine di
essere qualcuno e dal peso dell'universo.

[/ QUOTE ]


E mrekullueshme... Ekziston dhe perkthimi ne shqip.. Shume i bukur dhe ai.
 

Ema

Goddes
Re: Letra nga Amerika Latine

Jorge Amado
Lindi ne Bahia(Brazil) ne 1912.Filloi karrieren si gazetar dhe me pas u be i njohur me tregimet dhe romanet e tij ne mbare boten.Mes veprave me te mira permendim:Gabriele,karajfil dhe kanelle;Teresa Batista e lodhur prej luftes;Toka te Fundbotes,Kohe te veshtira;Kakao,etj.
Te gjithe veprat e shkrimtarit jane te frymezuara nga kultura bahiane,brymosur me forcen dhe ngrohtesine e jashtezakonshme te Amerikes Latine.
Ne nje interviste shkrimtari shprehej:"Brazili eshte shuma e mrekullueshme e cdo kundertie te mundshme:ne gjakun e cdo braziliani te vertete rrjedh kultura europiane,indiane(indianet e amerikes),metise dhe afrikane dhe eshte pikerisht kjo perzjerje qe na tregon nje Brazil plot me drita dhe hije,kaq te brishte,te gezueshem dhe te dhunshem dhe gjithsesi te pashlyeshem nga kujtesa"
Jorge u be kengetari i "negritudine",kundershtari i lutes se klasave dhe i borgjezise bahiane,ai vete ne veprat e tij ironizon mbi shenjtet dhe ritet magjike te ardhura nga frika.Ne rinine e tij me disa miq shkrimtare themeloi La Academia de los ribeles,akademi qe shkonte kunder letersise zyrtare dhe ne te cilen bene pjese shkrimtare te shquar si:Sosìgenes Costa, Joao Cordeiro, Clovis Amorim, Vàlter da Silveira,etj.
Ashtu si Dickens ne Britanine e Madhe Amado ndryshoi Brazilin,kaq e madhe ishte forca e librave te tij.Pas botimit te librave te tij persekucioni i Brazilit ndaj Candomblès,idhujtaria,ritet magjike afrikane ndryshuan.Populli u perpoq te riparonte demet e shkaktuara ne shtresen e varfer dhe ne femijet.Kryevepra e tij eshte La Toacaia Grande,roman lirik,erotik dhe i dhunshem njekohesisht.


"...Ne ate moment nje hije kaloi neper qiej,dhe duke hyre nga shtigjet e mbyllura,fitoi mbi distancen dhe hipokrizine,mendim i lire nga cdo ngushtim...Dhe athere nje zjarr i madh u ndez mbi toke dhe populli dogji kohet e genjeshtres"
(Nga Donna Flor dhe dy burrat e saj,Jorge Amado")






Protagonistet ne veprat e Amadao,Nga gabriele tek Z.Flore.


Forse nessun’altra letteratura ha saputo ritrarre le donne e la loro femminilità come quella sudamericana: come personaggi, oggetto del desiderio e autrici, le sudamericane occupano un posto a sé.
Le donne di Amado sono fra le più indimenticabili: vitali e innocenti, lussuriose con gusto, ma senza mai cedere a chi non piace loro se non proprio costrette, capaci di sopportare terribili calamità quando gli uomini smettono di recitare la parte dei duri e se ne scappano con la coda fra le gambe (memorabile la parte del vaiolo debellato dalle prostitute in “Teresa Batista stanca di guerra”).
La famosa Gabriella, garofano e cannella, faceva l’amore spensieratamente e preparava deliziosi manicaretti; ma quando il buon Nacib pensa di far di lei una signora, credendo in buona fede di farle del bene, di elevarla, lei appassisce, come un fiore selvatico messo improvvisamente in una serra, finché non ritrova la libertà.

“Barca su mare tranquillo, navigazione in golfo sereno, isola coltivata di verdi canne da zucchero, di piantagioni colorate di pepe”
Così la descrive Amado.

Teresa ammazza il “capitano” che la trattava come una bestia, un animale domestico, sgozzandolo con il coltello per tagliare la carne secca. E, molto più tardi, quando ormai ne ha passate di tutti i colori, organizza con le compagne “lo sciopero del canestro” e i marinai americani sbarcati a Bahia devono accontentasi di una vecchia sdentata e in città rischia di succedere il finimondo.
Le donne di Amado, però, anche nella lotta, rimangono sempre femmine. Non si danno arie da intellettuali; la semplicità e loro forza: forse non conoscono molti libri, ma conoscono la vita.

Dona Flor ha un coraggio diverso, non deve affrontare la violenza fisica, ma quella delle chiacchere: quelle di chi la vorrebbe vedova a vita e quelle di chi pensa che sia un bocconcino facile perché è rimasta sola. Barcamenarsi fra la sicurezza e il dovere e la passione, fra il buon onesto Teodoro e l’inaffidabile, ma affascinante Vadinho.

Se queste sono le più famose, ve ne sono molte altre: Livia, la moglie di Guma, il maestro di saveiro della novella "Mar Morto", che alla morte del marito, con l’amica Rosa Palmerao prende in mano il vascello e continua il suo lavoro, per dare un futuro al figlio; e ancora Dora, la bambina-donna dei Capitani della spiaggia, che a questi ragazzi perduti dona il calore e il conforto tutto femminile della madre, della sorella che non hanno mai avuto; e molte altre.

Tante stelle, che con il loro passo, la loro passione e la loro allegria, mostrano al navigante errabondo la rotta imprevista della felicità.
 

Ema

Goddes
Re: Letra nga Amerika Latine

Due parole


Questa notte all'orecchio m'hai detto due parole.
Due parole stanche
d'esser dette. Parole
cosi' vecchie da esser nuove.
Parole cosi' dolci che la luna che andava
trapelando dai rami
mi si fermo' alla bocca. Cosi' dolci parole
che una formica passa sul mio collo e non oso
muovermi per cacciarla.
Cosi' dolci parole
che, senza voler, dico: "Com'e' bella la vita!"
Cosi' dolci e miti
che il mio corpo e' asperso di oli profumati.
Cosi' dolci e belle
che, nervose, le dita
si levano al cielo sforbiciando.
Oh, le dita vorrebbero
recidere stelle.



Esta noche al oído me
Has dicho dos palabras
Comunes. Dos palabras cansadas
De ser dichas. Palabras
Que de viejas son nuevas.


Dos palabras tan dulces,
Que la luna que andaba
Filtrando entre las ramas
Se detuvo en mi boca.
Tan dulces dos palabras
Que una hormiga pasea
Por mi cuello y no intento
Moverme para echarla.


Tan dulces dos palabras
Que digo sin quererlo
¡Oh! que bella, la vida
Tan dulces y tan mansas
Que aceites olorosos
Sobre el cuerpo derraman.


Tan dulces y tan bellas
Que nerviosos mis dedos,
Se mueven hacia el cielo
Imitando tijeras.
Oh, mis dedos quisieran
Cortar estrellas.

Alfonsina Storni
(Argentina)










In questa notte, in questo mondo

A Martha Isabel Moia

In questa notte in questo mondo
Le parole del sogno dell'infanzia della morta
Non è mai questo ciò che uno vuole dire
La lingua natale castra
La lingua è un organo di conoscenza
Del fallimento di ogni poema
Castrato dalla sua stessa lingua
Che è l'organo della ri-creazione
Del ri-conoscimento
Ma non quello della ri-surrezione
Di qualcosa in maniera di negazione
Del mio orizzonte di sofferenza con il suo cane
E niente è promessa
Tra il dicibile
Che equivale a mentire
(tutto quello che si può dire è bugia)
il resto è silenzio
solo che il silenzio non esiste
no
le parole
non fanno l'amore
fanno l'assenza
se dico acqua, berrò?
Se dico pane, mangerò?
In questa notte in questo mondo
Straordinario silenzio quello di questa notte
Quello che succede nell'anima non si vede
Quello che succede nella mente non si vede
Quello che succede nello spirito non si vede
Da dove viene questa cospirazione dell'invisibilità?
Nessuna parola è visibile.






EN ESTA NOCHE, EN ESTE MUNDO


A Martha Isabel Moia


en esta noche en este mundo
las palabras del sueño de la infancia de la muerta
nunca es eso lo que uno quiere decir
la lengua natal castra
la lengua es un órgano de conocimiento
del fracaso de todo poema
castrado por su propia lengua
que es el órgano de la re-creación
del re-conocimiento
pero no el de la re-surrección
de algo a modo de negación
de mi horizonte de maldoror con su perro
y nada es promesa
entre lo decible
que equivale a mentir
(todo lo que se puede decir es mentira)
el resto es silencio
sólo que el silencio no existe
no
las palabras
no hacen el amor
hacen la ausencia
si digo agua ¿beberé?
si digo pan ¿comeré?
en esta noche en este mundo
extraordinario silencio el de esta noche
lo que pasa con el alma es que no se ve
lo que pasa con la mente es que no se ve
lo que pasa con el espíritu es que no se ve
¿de dónde viene esta conspiración de invisibilidades?
ninguna palabra es visible.

Alejandra Pizanik(shkimtare argjentinase me origjine hebraike)
 

Ema

Goddes
Re: Letra nga Amerika Latine

Shkeputur nga Histórias de amor

Betsy aspettò il ritorno dell’uomo per morire.

Prima del viaggio aveva notato che Betsy mostrava un appetito non comune. Poi insorgevano altri sintomi, assunzione eccessiva d’acqua, incontinenza urinaria. L’unico problema di Betsy fino ad ora era la cateratta ad uno degli occhi. Non le piaceva uscire, ma prima del viaggio era entrata inaspettatamente con lui in ascensore e i due avevano passeggiato in spiaggia, una cosa che lei non faceva mai.
Il giorno che l’uomo arrivò, Besty trattenne le effusioni e restò senza mangiare. Venti giorni senza mangiare, sdraiata sul letto con l’uomo. Gli specialisti consultati dissero che non c’era niente da fare.
Betsy usciva dalla camera solo per bere dell’acqua.

L’uomo rimase con Betsy nel letto per tutta la sua agonia, accarezzando il suo corpo, sentendo con tristezza la magrezza delle sue anche. L’ultimo giorno, Betsy, molto quieta, gli occhi azzurri aperti, fissò l’uomo con lo stesso sguardo di sempre, che indicava il conforto e il piacere prodotti dalla sua presenza e dal suo affetto. Cominciò a tremare e lui l’abbracciò con più forza. Sentendo che le membra di lei erano fredde, l’uomo trovò per Betsy una posizione confortevole nel letto.

Allora ella distese il corpo, come per sgranchirsi e volto indietro la testa, in un gesto pieno di languore. Poi stiracchiò il corpo ancora di più e sospirò, una esalazione forte. L’uomo pensò che Betsy era morta. Ma alcuni secondi dopo lei emise un altro sospiro. Pieno d’orrore della sua stessa meticolosa attenzione l’uomo contò, uno ad uno, tutti i sospiri di Betsy.
Con un intervallo di alcuni secondi lei esalò nove sospiri uguali, la lingua di fuori, penzolante ai lati della bocca.
Poi passò a colpirsi i polpacci con i due piedi uniti, come faceva a volte, soltanto con più violenza.

Subito dopo, restò immobile. L’uomo passò la mano lieve sul corpo di Betsy. Lei si stiracchiò e allungò le membra per l’ultima volta. Era morta. Adesso, l’uomo lo sapeva, lei era morta.

L’intera notte l’uomo la passò sveglio al fianco di Betsy, accarezzandola lievemente, senza sapere cosa dire. Loro due avevano vissuto insieme diciotto anni.

La mattina, la lasciò sul letto e si recò in cucina per preparare un caffè forte. Prese il caffè in salotto. La casa non era mai stata così vuota e triste.

Per fortuna l’uomo non aveva gettato la scatola di cartone del frullatore. Ritornò nella stanza. Con cura, collocò il corpo di Betsy nella scatola. Con lo scatolone sottobraccio s’incaminò verso la porta. Prima di aprirla e uscire, si asciugò gli occhi. Non voleva che lo vedessero così.
Rubem Fonseca
 

Ema

Goddes
Re: Letra nga Amerika Latine

L'irritatore

(El irritador)

Ritenevo che un bel modo d'iniziare la settimana era dedicarmi ad irritare la gente.
Era un bel lunedì di settembre, le dieci circa del mattino.
All'angolo tra Florida e Cordoba fermai un signore d'una sessantina d'anni, molto ben vestito, con una valigetta nella mano destra e dall'aspetto d'avvocato o cancelliere.
«Mi scusi, signore» gli dissi «potrebbe per favore indicarmi come fare per raggiungere plaza de Mayo?»
La gente di Buenos Aires è affascinata dal poter fornire indicazioni stradali. Il signore si fermò compiaciuto, dette un rapido sguardo al mio aspetto ed al mio abbigliamento e, considerandomi a quanto pare degno della sua parola, replicò con una domanda oziosa.
«Lei desidera andare a plaza de Mayo o alla avenida de Mayo? »
«Mi piacerebbe andare in principio a plaza de Mayo, se però la cosa non fosse possibile mi adatterei ad andare in qualunque altro posto.»
«Molto bene» disse ansioso di parlare e senza avermi minimamente prestato attenzione. «Prenda per di là » indicò correttamente verso sud «ed incrocerà Viamonte, Tucumàn, Lavalle…»
Mi resi conto che si accingeva ad enumerare compiaciuto le otto vie che avrei dovuto incrociare e decisi quindi di interromperlo:
«È certo di quanto dice? »
Mi guardò molto serio:
«Assolutamente sicuro» rispose.
«Chiedo scusa se metto in dubbio la sua parola» spiegai, «ma qualche minuto fa un uomo dall'aria intelligente mi ha detto che plaza de Mayo era di là» ed indicai in direzione di plaza San Martin.
Forse ferito nell'orgoglio il signore si limitò a dire:
«Dev'essere qualcuno che non conosce la città.»
«Però, come le dissi, era un uomo dall'aria intelligente. Ed io, logicamente, preferisco credere a lui e non a lei...»
Il signore, che sino a quel momento si trovava in una specie di posizione provvisoria, come se dovesse immediatamente riprendere la marcia, cambiò atteggiamento divaricando le gambe e ben piantando i suoi piedi; capii che aveva deciso di prendere la faccenda molto sul serio e, di conseguenza, si accingeva a dedicarle tutto il tempo che sarebbe stato necessario. Per meglio gesticolare poggiò la valigetta a terra.
Guardandomi con estrema severità mi chiese:
«Vediamo un po', mi dica, perché preferisce credere a lui e non a me?»
«Non è che io preferisca credere a lui invece che a lei. Come però le ho detto quell'uomo aveva un'aria intelligente…»
«Non mi dica! Ed io ho l'aria d'asino, per caso?»
«No, no…!» esclamai scandalizzato da quella interpretazione, «Chi ha mai detto questo?»
«Siccome lei ha detto che l'altro aveva un'aria intelligente…»
«È che a dire il vero era un signore con una faccia così intelligente che sono rimasto affascinato nel guardarlo…»
Feci roteare un po' gli occhi e con le spalle abbozzai un gesto effeminato.
«Aveva un viso non solo intelligente» aggiunsi, « ma d'una bellezza anche straordinaria» estasiato, mi mordicchiai appena il labbro inferiore e finsi di cadere in una specie di leggera estasi. «Ah, per tutti gli indiavolati diavoli dell'inferno, che bell'uomo! E pensare che l'ho lasciato andar via senza neppure chiedergli il numero di telefono!»
Il mio interlocutore, alquanto allarmato, raccolse la valigetta e fece un passo all'indietro.
«Bene, signore» disse, «ho un po' di premura, perciò la saluto e me ne vado.»
«Sta bene» dissi abbandonando i modi effeminati, « come faccio però ad andare a plaza San Martin?»
La sua faccia fu attraversata da una breve espressione di contrarietà o sorpresa:
«Ma non mi aveva detto che voleva andare a plaza de Mayo?»
«No: a plaza San Martin » simulai perplessità. « Non s'è mai parlato di plaza de Mayo.»
«In questo caso» indicò dunque correttamente verso nord, « prenda per Florida e va ad incrociare Paraguay…»
«Lei mi sta facendo diventare matto! » mi irritai. « Non mi ha detto poco fa che dovevo andare dalla parte opposta?»
«Perché mi aveva detto che voleva andare a plaza de Mayo!»
«Non ho mai parlato di plaza de Mayo! Come lo devo dire? Lei capisce quel che si dice o è un ritardato mentale?»
Il signore divenne rosso e la sua destra si contrasse sulla maniglia della valigetta.
Spaventato, detti un gran balzo all'indietro; lui, incoraggiato dal mio finto timore, fece il gesto di assestarmi un colpo di valigetta.
Prontamente lo afferrai al polso e, torcendoglielo, lo costrinsi a mollare la ventiquattrore.
«Perfetto» dissi con gesto magnanimo, «questa ventiquattrore è sua e gliela restituisco.»
Ma invece di ridargliela la feci roteare orizzontalmente davanti ai suoi occhi a mo' d'anello di giostra. Dopo cinque o sei tentativi falliti riuscì con una manata brutale a strapparmi la valigetta e subito si rimise in marcia con passi bruschi e furenti.
Lo raggiunsi dopo qualche secondo e, affiancandolo, gli dissi:
«Spero proprio che non si sia offeso. Volevo solo farla arrabbiare un po'…»
La sua sgradevole risposta consistette in una frase grossolana (che il buon gusto mi vieta di riferire) e nel raddoppiare la velocità dei suoi passi.
Lasciai, deluso, che si perdesse tra la folla di Florida.
Fernando Sorrentino
 

Ema

Goddes
Re: Letra nga Amerika Latine

Il venditore di assicurazioni


Renata, con un vestito nuovo, si mise di profilo davanti allo specchio, girò il collo per vedersi di dietro, era uno specchio grande che le permetteva di vedersi per intero. Quando indossai il paletò, non so neanche come se ne accorse, quando si guardava allo specchio non vedeva nient’altro, mi chiese esci a lavorare a quest’ora ?

Il mio mestiere è vendere assicurazioni, lo sai, non ho orario, risposi.

Preferirei che ce l’avessi, sono le cinque di sera, non so a che ora torni, vedo già che stasera non usciremo, cosa mi compro vestiti nuovi a fare se non ci esco mai ?

Mi spiace, ma devo guadagnare soldi

Non ne hai guadagnati molti ultimamente

C’è molta concorrenza. E non era una scusa

Almeno mi guarderò la mia sfilata, lei disse, accendendo il televisore. C’era una TV via cavo che dava una sfilata di moda tutti i giorni.

Quando ero sulla soglia Renata disse, le signore eleganti adesso vanno coi seni di fuori, cosa ne pensi ?

Non ne ho ancora viste.

Ho detto le signore eleganti. Quante signore eleganti conosci ?

Soltanto te.

Se le cose vanno avanti così, non durerà a lungo.


Presi la macchina e mi fermai alla porta del mio futuro cliente, un edificio di cinque piani. Non mi fermai esattamente sul portone, , ma un po’ prima.
Lui arrivava sempre in taxi, portando una borsa, era un soggetto molto grasso, doveva essere per le pizze che mangiava. Scese con difficoltà dalla macchina, pensai che questa volta era da solo, ma un'altra tizio, un tipo barbuto, scese subito dopo. Volevo fargli visita quando stava da solo, l’altro soggetto non era compreso nell’assicurazione e io non volevo sprecare il mio eloquio. I due entrarono nell’edificio e io accesi un sigaro. Il mio cellulare squillò. Risposi.


Sei tu ?

Chi vuoi che sia ?, dissi

Parola d’ordine

Amico, tu vedi troppi film

È il mio modo di lavorare. Ormai ci dovresti essere abituato.

Cascate di Iguazù.

Ho un assicurazione per te.

Dovrai aspettare. Sono nel mezzo di una vendita.

Che polizza è questa ? lavori per un altro mediatore ?

Questo non ti riguarda.

Quando finisce ?

Non lo so. Anche tu dovresti essere ormai abituato al mio modo di lavorare.

Vedo che hai molteplici rapporti


Devo guadagnarmi da vivere. Tu non mi combini abbastanza affari.

Che rumore è quello ?

Non ho sentito alcun rumore.

Io l’ho sentito. Lo sai che il cellulare è una merda. Linea intecettata, i ficcanaso si infiltrano facilmente.

Si fottano i ficcanaso, non stiamo facendo nomi.

Cambia cellulare.

Ce l’ho da meno di due mesi.

È un sacco di tempo. Io lo cambio ogni mese.

Tu sei un mediatore.

Anche il venditore lo deve fare. Tanto più uno come te, che piscia fuori dal vaso.

Hai finito ?

Ti chiamo fra un paio di giorni.

Aspettai mezz’ora e arrivò il porta-pizze. arlò al citofono che c’era sul portone, la porta si aprì e questi entrò.
Il palazzo non aveva custode. Mi accesi un altro sigaro. Aspettai una mezz’ora, fumai otto sigari aspettando che il barbuto uscisse. Una taxi si fermò alla porta dell’edificio e poco dopo il grasso e il barbuto uscirono insieme e salirono sul taxi. Io non avrei perso tempo a seguire i due, non mi interessava quel che facevano. Tornai verso casa.

Prima di entrare spensi il cellulare. Renata stava guardando la televisione.

Sono tornato presto. Ordiniamo una cena dal cinese ?

Va bene.

Non mi sembri molto entusiasta. Non ti piace la cucina cinese. Confessa.

Confesso che non amo la cucina cinese.

A te piace solo il baccalà.

Ti prendi gioco di me ?

Più o meno. Com’era la sfilata di moda ?

Alcune modelle sfilano con il culo di fuori. Cosa ne pensi ?

Non conosco donne eleganti.

Continui a prendermi in giro. Nell’ufficio della compagnia di assicurazioni non vedrai certo donne che sfilano con il culo di fuori.

E dove succede ?

Nei posti chic. Posti dove nessuno gira con un revolver sotto l’ascella, come te.

Non è un revolver, è una pistola. Mi sento più sicuro con lei. Già mi vedo, sto vendendo un assicurazione in una gioielleria e appare un rapinatore ?

Se appare, cosa faresti ?

Non so, non è mai successo.

E sei andato a vendere assicurazioni in una gioielleria oggi ?

No.

Ma hai preso il revolver.

È diventata un’abitudine. È una pistola.

Per me è tutta la stessa cosa. Chiamo il cinese.

Mangiammo la cena del cinese. Renata continuò a guardare la televisione. Io andai a coricarmi. Prima mi fumai un sigaro nel tinello, Renata non mi lasciava fumare in nessun altro luogo della casa. Più tardi entrò nella stanza, si tolse i vestiti. La mia vita è così sciatta, disse, meno male almeno che non fai mai cilecca.
Non era merito mio. Con Renata nessuno avrebbe fatto cilecca.

Per una settimana restai a osservare il grasso che arrivava in taxi, e il barbuto era sempre con lui. Non li vidi mai conversare. Poi faceva la sua comparsa il porta-pizze. Il grasso era ogni giorno più grasso, ma l’altro tizio sembrava diventare più magro, vai a vedere che non gli piaceva la pizza. Un giorno restai tutta la notte nelle vicinanze dell’appartamento del grasso, i sigari finivano e io restavo lì, aspettando che il barbuto uscisse, ma non uscì.. allora iniziai ad arrivare lì di mattina. Il barbuto usciva verso le sette del mattino, usava sempre una blusa larga, buona per nascondere l’artiglieria, aveva la faccia da sbirro, doveva prendere servizio al comando di mattina. Il grasso usciva solo la sera.


Arrivai a casa e trovai un biglietto di Renata. Per me è finita, sono andata a casa di mia madre. Il buffo è che lei mi aveva sempre detto di non avere madre. Si era portata le tre valigie coi suoi vestiti, del resto non aveva molte altre cose da portarsi, comprava soltanto vestiti. Questo problema doveva aspettare, avevo un altro problema da risolvere, prima. Presi il telefono e ordinai la cena al cinese, non so bene perché. Credo che volessi essere pronto a tutto, e il migliori modo per esserlo è mangiare male.

Il mio cliente abitava al quarto piano. Il corridoio era deserto. Estrassi il silenziatore dalla borsa e lo adattai alla canna della pistola. La serratura della porta poteva essere aperta anche da un dilettante. Entrai. Il mediatore mi aveva fornito la pianta dell’appartamento. Non udii nessun rumore, non ne feci nessuno. Nessuno in salotto, nemmeno in cucina. Andai verso le camere, i letti erano disfatti ma non c’era nessun segno del cliente.
La porta del bagno era socchiusa.

Aprii lentamente la porta del bagno con la canna del silenziatore.

Il mio cliente era disteso nella vasca, con l’acqua fino alle ascelle.
Mi vide quando entrai, ed emise un sospiro. Io avrei dovuto sparare subito, ma non sparai.

Stai per perdere il treno, mi disse lui, con cadenza da portoghese.
Cominciò a estrarre un braccio fuori dall’acqua.

Adagio, dissi, puntangli la pistola alla testa.

Lui mi mostrò il polso, scorreva sangue. L’acqua non era molto rossa. Una lametta brillava sulle piastrelle del pavimento. Mi sedetti sulla panca al lato della vasca.

Mostrami l’altro braccio, ordinai.

Aveva pure l’altro polso tagliato.

Mi tolsi i guanti e uscii. Scesi con l’ascensor, pensando. Quando arrivai al piano terra, premetti il bottone del quarto piano. Entrai nuovamente nell’appartamento del cliente.

Lui vide quando entrai in bagno.

Di ritorno ?

Quanto tempo ci mette ? chiesi.

Non so. Ma non fa male.

Mi misi i guanti, andai in salotto, presi l’arma del cliente e tornai in bagno.

Non mi guardare, gli dissi.

Il 22 non fa molto fracasso. Gli sparai in testa. Un’altra notte senza dormire.

Lasciai il revolver sul pavimento del bagno, a fianco della lametta.

Chiamai dall’auto il mediatore.


Ho fatto il lavoro.

Faccio il deposito oggi, disse il mediatore, e agganciò.

Mi piace fare il bagno nella vasca, leggere il giornale sdraiato nell’acqua calda. Ma non mi feci il bagno. Entrai solo per urinare.

Non pranzai. Un’altra notte senza dormire. Sarebbe bello che Renata fosse qui con me.

Rubem Fonseca
 

Ema

Goddes
Re: Letra nga Amerika Latine

Ci piaceva la casa perché oltre ad essere spaziosa e antica (ora che le case antiche soccombono alla più vantaggiosa liquidazione dei loro materiali) conservava i ricordi dei nostri bisavoli, del nonno paterno, dei nostri genitori e di tutta la nostra infanzia.

Ci abituammo, Irene ed io, a persistervi da soli, cosa che era una follia perché in quella casa potevano vivere otto persone senza darsi fastidio. Facevamo le pulizie il mattino, alzandoci alle sette, e intorno alle undici lasciavo a Irene le ultime camere da spolverare per andare in cucina. Pranzavamo a mezzogiorno, sempre puntuali; non restava molto da sbrigare, tranne pochi piatti sporchi. Era piacevole pranzare pensando alla casa profonda e silenziosa e a come bastassimo noi soli per mantenerla pulita. A volte arrivammo a credere che fosse lei a impedire che ci sposassimo. Irene rifiutò due pretendenti senza seri motivi, e a me morì Maria Esther prima che decidessimo di fidanzarci ufficialmente. Ci affacciamo alla quarantina con l’inespressa convinzione che il nostro semplice e silenzioso matrimonio di fratelli fosse la necessaria conclusione della genealogia fondata dai bisavoli nella nostra casa. Un giorno saremmo morti là, cugini improbabili e schivi avrebbero ereditato la casa e l’avrebbero rasa al suolo per arricchirsi con il terreno e i mattoni; o meglio, noi stessi l’avremmo abbattuta come giustizieri prima che fosse troppo tardi.
Irene era una ragazza nata per non dare noia a nessuno. Tolte le attività del mattino, trascorreva la giornata facendo lavori a maglia sul sofà o in camera sua. Non so perché tessesse tanto, credo che i lavori a maglia siano per le donne il grande pretesto per non fare niente. Irene non era così, ordiva sempre cose necessarie, golf per l’inverno, calze per me, liseuse e sottovesti per lei. Qualche volta tesseva una sottoveste e poi la disfaceva in un momento perché qualcosa non le piaceva; era divertente vedere nel cestino il mucchio di lana increspata che si rifiutava di perdere la sua forma di poche ore. Il sabato ero io che andavo in centro a comprarle la lana; Irene si fidava del mio gusto, era contenta dei colori e non dovetti mai restituire alcuna matassa. Profittavo di queste uscite per fare un giro nelle librerie e domandare inutilmente se c’erano novità di letteratura francese. Dal 1939 non arrivava niente di importante in Argentina.
Ma è della casa che mi interessa parlare, della casa e di Irene, perché io non conto. Mi domando che cosa avrebbe fatto Irene senza i lavori a maglia. Si può rileggere un libro, ma quando un pullover è finito non si può ripeterlo impunemente. Un giorno trovai l’ultimo cassetto del comò di canfora pieno di scialletti bianchi, verdi, lilla. Erano in naftalina, appilati come in una merceria; non ebbi il coraggio di domandare a Irene cosa pensasse di farne. Non avevamo bisogno di guadagnarci da vivere, tutti i mesi arrivavano i soldi della campagna e il denaro aumentava. Ma Irene si svagava solo con i lavori a maglia, dimostrava un’abilità meravigliosa e a me fuggivano le ore guardandole le mani simili a ricci argentei, ferri in su e in giù e uno o due cestini a terra dove si agitavano costantemente i gomitoli. Era bello.

Come potrei dimenticare la distribuzione della casa. La stanza da pranzo, una sala con arazzi, la biblioteca e tre grandi camere da letto rimanevano nella parte più interna, quella che guarda su Rodríguez Peña. Solo un corridoio con la sua massiccia porta di rovere isolava quella parte dall’ala frontale dove si trovavano un bagno, la cucina, le nostre camere da letto e il living centrale, con il quale comunicavano le camere da letto e il corridoio. Si entrava nella casa attraversando un atrio con maioliche, e la porta finestra dava sul living. Di modo che si entrava attraverso l’atrio, si apriva il cancello e si passava nel living; si avevano allora sui due lati le porte delle nostre camere da letto, e di fronte il corridoio che conduceva nella parte più interna; continuando per il corridoio, si oltrepassava la porta di rovere e più oltre cominciava l’altro lato della casa, oppure si poteva girare a sinistra proprio davanti alla porta e proseguire per un corridoio più stretto che portava in cucina e in bagno. Quando la porta era aperta ci si accorgeva subito che la casa era molto grande; altrimenti dava l’impressione di uno di quegli appartamenti che si costruiscono adesso, fatti per muoversi appena; Irene ed io vivevamo sempre in questa parte della casa, quasi mai oltrepassavamo la porta di rovere, salvo che per fare le pulizie, perché è incredibile quanta terra si accumuli sui mobili. Buenos Aires sarà una città pulita, ma lo deve ai suoi abitanti e non ad altro. C’è troppa terra nell’aria, appena soffia un po’ di vento si palpa la polvere sui marmi delle consolle e fra i rombi dei centrini di macramè; è una vera fatica toglierla bene con il piumino, vola e resta sospesa in aria, un momento dopo si deposita di nuovo sui mobili e sui ripiani.

Lo ricorderò sempre con precisione perché fu semplice e senza particolari inutili. Irene stava lavorando a maglia in camera sua, erano le otto di sera e all’improvviso mi venne in mente di mettere sul fuoco il bricco del mate. Mi avviai per il corridoio fino a trovarmi davanti alla porta di rovere che era socchiusa, e stavo girando verso la cucina quando sentii qualcosa nella sala da pranzo o nella biblioteca. Il suono arrivava indistinto e sordo, come il rovesciarsi di una sedia sul tappeto o un soffocato sussurro di conversazione. Lo udii anche, nello stesso momento o un secondo più tardi, in fondo al corridoio che andava da quelle stanze alla porta. Mi gettai contro la porta prima che fosse troppo tardi, la chiusi di colpo appoggiandomici con il corpo; fortunatamente la chiave era infilata dalla nostra parte e inoltre feci scorrere il grande chiavistello per maggior sicurezza.
Andai in cucina, scaldai il bricco, e quando fui di ritorno con il vassoio del mate dissi a Irene:
– Ho dovuto chiudere la porta del corridoio. Hanno occupato la parte in fondo.
Lasciò cadere il lavoro a maglia e mi guardò con i suoi gravi occhi stanchi.
– Ne sei sicuro?
Annuii.
– Allora, – disse raccogliendo i ferri, – dovremo vivere da questo lato.
Io preparavo il mate con molta cura, ma lei tardò un istante a riprendere il suo lavoro. Ricordo che stava facendo una sottoveste grigia; mi piaceva quella sottoveste.
I primi giorni ci sembrò penoso perché entrambi avevamo lasciato nella parte occupata molte cose che amavamo. I miei libri di letteratura francese, per esempio, erano tutti nella biblioteca. Irene sentiva la mancanza di certe tovagliette, di un paio di pantofole che le tenevano tanto caldo in inverno. Io rimpiangevo la mia pipa di ginepro e credo che Irene pensasse a una bottiglia di Esperidina oramai antica. Frequentemente (ma questo accadde solo nei primi giorni) chiudevamo qualche cassetto dei comò e ci guardavamo con tristezza.
– Qui non c’è.
Ed era una cosa in più di tutto quel che avevamo perduto all’altro lato della casa.
Ma ne fummo anche avvantaggiati. Le pulizie furono talmente semplificate che anche alzandoci tardissimo, alle nove e mezzo per esempio, non erano ancora suonate le undici che già ce ne stavamo con le mani in mano. Irene si abituò a venire con me in cucina e ad aiutarmi a preparare il pranzo. Ci pensammo bene, e decidemmo così: mentre io preparavo il pranzo, Irene avrebbe cucinato piatti da mangiare freddi la sera. Ce ne rallegrammo perché è sempre seccante dover abbandonare le proprie camere sul far della sera e mettersi a cucinare. Adesso ci bastava la tavola in camera di Irene e i piatti freddi.
Irene era contenta perché le restava più tempo per lavorare a maglia. Io mi sentivo un po’ smarrito senza i libri, ma per non rattristare mia sorella presi a sfogliare la collezione di francobolli di papà, e questo mi servì ad ammazzare il tempo. Ci divertiamo molto, ciascuno occupato nelle cose sue, quasi sempre riuniti nella camera d’Irene, che era più comoda. A volte Irene diceva:
– Guarda il punto che mi è venuto. Non ti sembra il disegno di un trifoglio?
Un momento dopo ero io che le mettevo sotto gli occhi un quadratino di carta affinché ammirasse il valore di un francobollo di Eupen-et-Malmèdy. Stavamo bene, e a poco a poco cominciavamo a non pensare. Si può vivere senza pensare.

(Quando Irene sognava ad alta voce io mi svegliavo subito. Non mi sono mai potuto abituare a quella voce da statua o da pappagallo, voce che viene dai sogni e non dalla gola. Irene diceva che i miei sogni erano fatti di grandi scossoni che qualche volta facevano cadere la coperta. Le nostre camere da letto erano divise dal living, ma di notte si sentiva tutto nella casa. Ci sentivamo respirare, tossire, presentivamo il gesto che conduce all’interruttore della lampadina, le mutue e frequenti insonnie.
A parte questo, tutto era silenzioso nella casa. Di giorno, solo i rumori domestici, lo strofinio metallico dei ferri da cucito, uno scricchiolio nel voltare le pagine dell’album filatelico. La porta di rovere, credo di averlo già detto, era massiccia. Nella cucina e nel bagno, che erano contigui alla parte occupata, ci mettevamo a parlare a voce più alta oppure Irene cantava qualche ninna-nanna. In una cucina c’è troppo rumore di stoviglie e bicchieri perché altri suoni vi irrompano. Quasi mai permettevamo lì il silenzio, ma quando tornavamo alle camere da letto e al living, allora la casa si faceva silenziosa e in penombra, camminavamo persino più piano per non darci noia a vicenda. Credo fosse per questa ragione che di notte, quando Irene cominciava a sognare ad alta voce, io mi svegliavo subito).
È quasi come ripetere la stessa cosa, salvo le conseguenze. Di notte mi viene sete, e prima di andare a letto dissi a Irene che andavo in cucina a prendere un bicchiere d’acqua. Dalla porta alla camera da letto (lei lavorava a maglia) udii il rumore in cucina; forse nella cucina o forse nel bagno perché il gomito del corridoio spegneva i suoni. Irene fu colpita dal modo brusco con cui mi fermai, e venne accanto a me senza dire una parola. Restammo ad ascoltare i rumori, notando distintamente che provenivano da questa parte della porta di rovere, nella cucina e nel bagno, o nello stesso corridoio, dove incominciava il gomito quasi al nostro fianco.
Non ci guardammo neppure. Strinsi il braccio di Irene e la feci correre con me fino alla porta finestra, non ci voltammo indietro. I rumori si udivano sempre più forti ma sempre sordi, alle nostre spalle. Chiusi d’un colpo la porta e restammo nell’atrio. Ora non si udiva nulla.
– Hanno occupato questa parte, – disse Irene. Il lavoro a maglia le pendeva dalle mani e i fili arrivavano fino alla porta e vi si perdevano sotto. Quando vide che i gomitoli erano rimasti dall’altro lato lasciò cadere il lavoro senza guardarlo.
– Hai avuto tempo di portare via qualcosa? – le domandai inutilmente.
– No, niente.
Restavamo con quel che avevamo indosso. Mi ricordai dei quindicimila pesos nell’armadio della mia camera da letto. Troppo tardi ormai.
Poiché mi era rimasto l’orologio da polso, vidi che erano le undici di sera. Cinsi con un braccio la vita di Irene (credo che lei stesse piangendo) e uscimmo in strada. Prima che ci allontanassimo, ebbi pietà, chiusi bene la porta d’entrata e gettai la chiave nel tombino. Che a un povero diavolo non venisse in mente di rubare e di entrare in casa, a quell’ora e con la casa occupata.

Còrtazar
 

Ema

Goddes
Re: Letra nga Amerika e Jugut

I due re e i due labirinti

Da L'Aleph di Jorge Luis Borges


Narrano gli uomini di fede (ma Allah sa di piu') che nei tempi antichi ci fu un re delle isole
di Babilonia che riuni' i suoi architetti e i suoi maghi e comando' loro di costruire un
labirinto tanto involuto e arduo che gli uomini prudenti non si avventuravano a entrarvi, e
chi vi entrava si perdeva.
Quella costruzione era uno scandalo, perche' la confusione e la meraviglia sono operazioni
proprie di Dio e non degli uomini.
Passando il tempo, venne alla sua corte un re degli arabi, e il re di Babilonia (per burlarsi della
semplicita' del suo ospite) lo fece penetrare nel labirinto, dove vago' offeso e confuso fino
al crepuscolo.
Allora imploro' il soccorso divino e trovo' la porta. Le sue labbra non proferirono alcun lamento,
ma disse al re di Babilonia ch'egli in Arabia aveva un labirinto migliore e che, a Dio
piacendo, gliel'avrebbe fatto conoscere un giorno.
Poi fece ritorno in Arabia, riuni' i suoi capitani e guerrieri e devasto' il regno di Babilonia
con si' buona fortuna che rase al suolo i suoi castelli, sgomino' i suoi uomini e fece prigioniero
lo stesso re. Lo lego' su un veloce cammello e lo porto' nel deserto. Andarono tre giorni, e gli
disse: "Oh, re del tempo e sostanza e cifra del secolo! In Babilonia mi volesti perdere in un
labirinto di bronzo con molte scale, porte e muri; ora l'Onnipotente ha voluto ch'io ti mostrassi
il mio dove non ci sono scale da salire, ne' porte da forzare, ne' faticosi corridoi da percorrere, ne' muri che ti
vietano il passo." Poi gli sciolse i legami e lo abbandono' in mezzo al deserto, dove quegli
mori' di fame e di sete. La gloria sia con Colui che non muore.
 

Ema

Goddes
Re: Letra nga Amerika Latine

EShte e paplote dhe me duket e le ne gjys konceptin po do perpiqem ta gjej te plote:
Inquisiciones (Altre inquisizioni).


Metamorfosi della tartaruga


C'è un concetto che corrompe e altera tutti gli altri. Non parlo del Male,
il cui limitato impero è l'etica; parlo dell'infinito. Desiderai allora
compilare la sua mobile storia. La numerosa Idra (mostro palustre che è
come una prefigurazione o un emblema delle progressioni geometriche)
conferirebbe opportuno orrore al portico: la conobbero i sordidi incubi di
Kafka e i suoi capitoli centrali non ignorerebbero le ipotesi di quel
remoto cardinale tedesco - Nicolas de Krebs, o Nicolò da Cusa - che
nella circonferenza vide un poligono d'un numero infinito di angoli e
lasciò scritto che una linea infinita sarebbe una retta, un triangolo, un
circolo e una sfera (De docta ignorantia).

Kafka e i suoi precursori

Premeditai allora un esame dei precursori di Kafka.
Il primo è il paradosso di Zenone contro il movimento. Un mobile che
sta in A (afferma Aristotele) non potrà raggiungere un punto B, perché
prima dovrà percorrere la metà della strada che è tra i due punti, e
prima, la metà della metà, e prima, la metà della metà della metà e così
all'infinito; la forma di questo illustre problema è, esattamente, quella del
Castello, e il mobile e la freccia e Achille sono i primi personaggi
kafkiani della letteratura.



Pascal

Democrito pensò che nell'infinito si danno mondi uguali, nei quali uomini
uguali compiono senza una variazione destini uguali; Pascal (sul quale
poterono anche influire le antiche parole di Anassagora, che tutto sta in
ogni cosa) comprese codesti mondi simili gli uni dentro gli altri, in modo
che non v'è atomo nello spazio che non racchiuda universi né universo
che non sia anche atomo. E' logico pensare (sebbene non lo dicesse) che
si vide moltiplicato in essi senza fine.
 

Ema

Goddes
Re: Letra nga Amerika Latine

Instantes - Istanti
Si pudiera vivir nuevamente mi vida.
En la próxima trataría de cometer más errores.
No intentaría ser tan perfecto, me relajaría más.
Sería más tonto de lo que he sido,
de hecho tomaría muy pocas cosas con seriedad.
Sería menos higiénico.
Se potessi vivere di nuovo la mia vita.
Nella prossima cercherei di commettere più errori.
Non cercherei di essere così perfetto, mi rilasserei di più.
Sarei più sciocco di quanto non lo sia già stato,
di fatto prenderei ben poche cose sul serio.
Sarei meno igenico.
Correría más riesgos,
haría más viajes,
contemplaría más atardeceres,
subiría más montañas,
nadaría más ríos.
Correrei più rischi,
farei più viaggi,
contemplerei più tramonti,
salirei più montagne,
nuoterei in più fiumi.
Iría a más lugares adonde nunca he ido,
comería más helados y menos habas,
tendría más problemas reales y menos imaginarios.
Andrei in più luoghi dove mai sono stato,
mangerei più gelati e meno fave,
avrei più problemi reali, e meno problemi immaginari.
Yo fuí una de esas personas que vivió sensata
y prolíficamente cada minuto de su vida;
claro que tuve momentos de alegría.
Io fui uno di quelli che vissero ogni minuto
della loro vita sensati e con profitto;
certo che mi sono preso qualche momento di allegria.
Pero si pudiera volver atrás trataría
de tener solamente buenos momentos.
Por si no lo saben, de eso está hecha la vida,
sólo de momentos; no te pierdas el ahora.
Ma se potessi tornare indietro, cercherei
di avere soltanto momenti buoni.
Chè, se non lo sapete, di questo è fatta la vita,
di momenti: non perdere l'adesso.
Yo era uno de esos que nunca
iban a ninguna parte sin un termómetro,
una bolsa de agua caliente,
un paraguas y un paracaídas;
si pudiera volver a vivir, viajaría más liviano.
Io ero uno di quelli che mai
andavano da nessuna parte senza un termometro,
una borsa dell'acqua calda,
un ombrello e un paracadute;
se potessi tornare a vivere, vivrei più leggero.
Si pudiera volver a vivir
comenzaría a andar descalzo a principios
de la primavera
y seguiría descalzo hasta concluir el otoño.
Se potessi tornare a vivere
comincerei ad andare scalzo all'inizio
della primavera
e resterei scalzo fino alla fine dell'autunno.
Daría más vueltas en calesita,
contemplaría más amaneceres,
y jugaría con más niños,
si tuviera otra vez la vida por delante.
Farei più giri in calesse,
guarderei più albe,
e giocherei con più bambini,
se mi trovassi di nuovo la vita davanti.
Pero ya ven, tengo 85 años y sé que me estoy muriendo.
Ma vedete, ho 85 anni e so che sto morendo.
 

Ema

Goddes
Re: Letra nga Amerika Latine

Citime,Borges:

Abbiamo smesso di credere nel progresso. Di che progresso si può parlare!
Chi dice che l'arte non deve propagandare dottrine si riferisce di solito a dottrine contrarie alle sue. (da Il primo Wells, in Altre inquisizioni)
Essere immortale è cosa da poco: tranne l'uomo, tutte le creature lo sono, giacché ignorano la morte; la cosa divina, terribile, incomprensibile, è sapersi immortali. (da L'Aleph)
Gli specchi, e la copula, sono abominevoli, perché moltiplicano il numero degli uomini. (da Finzioni)
Ho conosciuto l'incertezza: una condizione sconosciuta ai greci.
Il libro non è un ente chiuso alla comunicazione: è una relazione, è un asse di innumerevoli relazioni. (da Altre inquisizioni)
Il mare è un antico idioma che non riesco a decifrare.
Il vantaggio di avere degli imitatori è che alla fine essi operano una guarigione di te stesso.
Innamorarsi è dar vita ad una religione il cui dio è fallibile. (da "Nove saggi danteschi")
La Biblioteca perdurerà: illuminata, solitaria, infinita, perfettamente immobile, armata di volumi preziosi, inutile, incorruttibile, segreta. Aggiungo: infinita. (da Finzioni)
La gloria è una forma d'incomprensione, forse la peggiore.
La notte ci piace perché, come il ricordo, sopprime i particolari oziosi.
La poesia non è meno misteriosa degli altri elementi dell'Universo (da introduzione Elogio dell'ombra)
La vita è troppo povera per non essere anche immortale.
La vita stessa è una citazione.
L'amicizia fra un uomo e una donna è sempre un poco erotica, anche se inconsciamente.
L'arte vuol sempre irrealtà visibili. (da Metamorfosi della tartaruga, in Altre inquisizioni)
L'opera che perdura è sempre capace di un'infinita e plastica ambiguità; è tutto per tutti […]; è uno specchio che svela tratti del lettore ed è insieme una mappa del mondo. (da Il primo Wells, in Altre inquisizioni)
Morire per una religione è più semplice che viverla con pienezza; lottare in Efeso contro le fiere è meno duro (migliaia di martiri oscuri lo fecero) che essere Paolo, servo di Gesù Cristo: un atto è meno che tutte le ore di un uomo. La battaglia e la gloria sono cose facili. (da Deutsches Requiem, ne L'Aleph)
Ogni poesia è misteriosa; nessuno sa interamente ciò che gli è stato concesso di scrivere.
Scoprimmo (a notte alta questa scoperta è inevitabile) che gli specchi hanno qualcosa di mostruoso. Bioy Casares ricordò allora che uno degli eresiarchi di Uqbar aveva giudicato che gli specchi, e la copula, sono abominevoli, poiché moltiplicano il numero degli uomini. (da Finzioni, p. 7)
Scrivere non è niente più di un sogno che porta consiglio.
Stampando una notizia in grandi lettere, la gente pensa che sia indiscutibilmente vera.
Un bravo attore non fa mai la sua entrata prima che il teatro sia pieno.
Un buon lettore è raro quanto un bravo scrittore.
Un uomo gradatamente si identifica con la forma del proprio destino; un uomo è, a lungo andare, le proprie circostanze.
 

Ema

Goddes
Re: Letra nga Amerika Latine

Jorge Luis Borges

LA BIBLIOTECA DE BABEL

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El universo (que otros llaman la Biblioteca) se compone de un número indefinido, y tal vez infinito, de galerías hexagonales, con vastos pozos de ventilación en el medio, cercados por barandas bajísimas. Desde cualquier hexágono se ven los pisos inferiores y superiores: interminablemente. La distribución de las galerías es invariable. Veinte anaqueles, a cinco largos anaqueles por lado, cubren todos los lados menos dos; su altura, que es la de los pisos, excede apenas la de un bibliotecario normal. Una de las caras libres da a un angosto zaguán, que desemboca en otra galería, idéntica a la primera y a todas. A izquierda y a derecha del zaguán hay dos gabinetes minúsculos. Uno permite dormir de pie; otro, satisfacer las necesidades finales. Por ahí pasa la escalera espiral, que se abisma y se eleva hacia lo remoto. En el zaguán hay un espejo, que fielmente duplica las apariencias. Los hombres suelen inferir de ese espejo que la Biblioteca no es infinita (si lo fuera realmente ¿a qué esa duplicación ilusoria?); yo prefiero soñar que las superficies bruñidas figuran y prometen el infinito... La luz procede de unas frutas esféricas que llevan el nombre de lámparas. Hay dos en cada hexágono: transversales. La luz que emiten es insuficiente, incesante.
Como todos los hombres de la Biblioteca, he viajado en mi juventud; he peregrinado en busca de un libro, acaso del catálogo de catálogos; ahora que mis ... ahora que mis ojos casi no pueden descifrar lo que escribo, me preparo a morir a unas pocas leguas del hexágono en que nací. Muerto, no faltarán manos piadosas que me tiren por la baranda; mi sepultura será el aire insondable; mi cuerpo se hundirá largamente y se corromperá y disolverá en el viento engendrado por la caída, que es infinita. Yo afirmo que la Biblioteca es interminable. Los idealistas arguyen que las salas hexagonales son una forma necesaria del espacio absoluto o, por lo menos, de nuestra intuición del espacio. Razonan que es inconcebible una sala triangular o pentagonal. (Los místicos pretenden que el éxtasis les revela una cámara circular con un gran libro circular de lomo continuo, que da toda la vuelta de las paredes; pero su testimonio es sospechoso; sus palabras, oscuras. Ese libro cíclico es Dios.) Básteme, por ahora, repetir el dictamen clásico: La Biblioteca es una esfera cuyo centro cabal es cualquier hexágono, cuya circunferencia es inaccesible.
A cada uno de los muros de cada hexágono corresponden cinco anaqueles; cada anaquel encierra treinta y dos libros de formato uniforme; cada libro es de cuatrocientas diez páginas; cada página, de cuarenta renglones; cada renglón, de unas ochenta letras de color negro. También hay letras en el dorso de cada libro; esas letras no indican o prefiguran lo que dirán las páginas. Sé que esa inconexión, alguna vez, pareció misteriosa. Antes de resumir la solución (cuyo descubrimiento, a pesar de sus trágicas proyecciones, es quizá el hecho capital de la historia) quiero rememorar algunos axiomas.
El primero: La Biblioteca existe ab aeterno. De esa verdad cuyo colorario inmediato es la eternidad futura del mundo, ninguna mente razonable puede dudar. El hombre, el imperfecto bibliotecario, puede ser obra del azar o de los demiurgos malévolos; el universo, con su elegante dotación de anaqueles, de tomos enigmáticos, de infatigables escaleras para el viajero y de letrinas para el bibliotecario sentado, sólo puede ser obra de un dios. Para percibir la distancia que hay entre lo divino y lo humano, basta comparar estos rudos símbolos trémulos que mi falible mano garabatea en la tapa de un libro, con las letras orgánicas del interior: puntuales, delicadas, negrísimas, inimitablemente simétricas.
El segundo: El número de símbolos ortográficos es veinticinco. Esa comprobación permitió, hace trescientos años, formular una teoría general de la Biblioteca y resolver satisfactoriamente el problema que ninguna conjetura había descifrado: la naturaleza informe y caótica de casi todos los libros. Uno, que mi padre vio en un hexágono del circuito quince noventa y cuatro, constaba de las letras MCV perversamente repetidas desde el renglón primero hasta el último. Otro (muy consultado en esta zona) es un mero laberinto de letras, pero la página penúltima dice «Oh tiempo tus pirámides». Ya se sabe: por una línea razonable o una recta noticia hay leguas de insensatas cacofonías, de fárragos verbales y de incoherencias. (Yo sé de una región cerril cuyos bibliotecarios repudian la supersticiosa y vana costumbre de buscar sentido en los libros y la equiparan a la de buscarlo en los sueños o en las líneas caóticas de la mano... Admiten que los inventores de la escritura imitaron los veinticinco símbolos naturales, pero sostienen que esa aplicación es casual y que los libros nada significan en sí. Ese dictamen, ya veremos no es del todo falaz.)
Durante mucho tiempo se creyó que esos libros impenetrables correspondían a lenguas pretéritas o remotas. Es verdad que los hombres más antiguos, los primeros bibliotecarios, usaban un lenguaje asaz diferente del que hablamos ahora; es verdad que unas millas a la derecha la lengua es dialectal y que noventa pisos más arriba, es incomprensible. Todo eso, lo repito, es verdad, pero cuatrocientas diez páginas de inalterables MCV no pueden corresponder a ningún idioma, por dialectal o rudimentario que sea. Algunos insinuaron que cada letra podía influir en la subsiguiente y que el valor de MCV en la tercera línea de la página 71 no era el que puede tener la misma serie en otra posición de otra página, pero esa vaga tesis no prosperó. Otros pensaron en criptografías; universalmente esa conjetura ha sido aceptada, aunque no en el sentido en que la formularon sus inventores.
Hace quinientos años, el jefe de un hexágono superior dio con un libro tan confuso como los otros, pero que tenía casi dos hojas de líneas homogéneas. Mostró su hallazgo a un descifrador ambulante, que le dijo que estaban redactadas en portugués; otros le dijeron que en yiddish. Antes de un siglo pudo establecerse el idioma: un dialecto samoyedo-lituano del guaraní, con inflexiones de árabe clásico. También se descifró el contenido: nociones de análisis combinatorio, ilustradas por ejemplos de variaciones con repetición ilimitada. Esos ejemplos permitieron que un bibliotecario de genio descubriera la ley fundamental de la Biblioteca. Este pensador observó que todos los libros, por diversos que sean, constan de elementos iguales: el espacio, el punto, la coma, las veintidós letras del alfabeto. También alegó un hecho que todos los viajeros han confirmado: No hay en la vasta Biblioteca, dos libros idénticos. De esas premisas incontrovertibles dedujo que la Biblioteca es total y que sus anaqueles registran todas las posibles combinaciones de los veintitantos símbolos ortográficos (número, aunque vastísimo, no infinito) o sea todo lo que es dable expresar: en todos los idiomas. Todo: la historia minuciosa del porvenir, las autobiografías de los arcángeles, el catálogo fiel de la Biblioteca, miles y miles de catálogos falsos, la demostración de la falacia de esos catálogos, la demostración de la falacia del catálogo verdadero, el evangelio gnóstico de Basilides, el comentario de ese evangelio, el comentario del comentario de ese evangelio, la relación verídica de tu muerte, la versión de cada libro a todas las lenguas, las interpolaciones de cada libro en todos los libros, el tratado que Beda pudo escribir (y no escribió) sobre la mitología de los sajones, los libros perdidos de Tácito.
Cuando se proclamó que la Biblioteca abarcaba todos los libros, la primera impresión fue de extravagante felicidad. Todos los hombres se sintieron señores de un tesoro intacto y secreto. No había problema personal o mundial cuya elocuente solución no existiera: en algún hexágono. El universo estaba justificado, el universo bruscamente usurpó las dimensiones ilimitadas de la esperanza. En aquel tiempo se habló mucho de las Vindicaciones: libros de apología y de profecía, que para siempre vindicaban los actos de cada hombre del universo y guardaban arcanos prodigiosos para su porvenir. Miles de codiciosos abandonaron el dulce hexágono natal y se lanzaron escaleras arriba, urgidos por el vano propósito de encontrar su Vindicación. Esos peregrinos disputaban en los corredores estrechos, proferían oscuras maldiciones, se estrangulaban en las escaleras divinas, arrojaban los libros engañosos al fondo de los túneles, morían despeñados por los hombres de regiones remotas. Otros se enloquecieron... Las Vindicaciones existen (yo he visto dos que se refieren a personas del porvenir, a personas acaso no imaginarias) pero los buscadores no recordaban que la posibilidad de que un hombre encuentre la suya, o alguna pérfida variación de la suya, es computable en cero.
También se esperó entonces la aclaración de los misterios básicos de la humanidad: el origen de la Biblioteca y del tiempo. Es verosímil que esos graves misterios puedan explicarse en palabras: si no basta el lenguaje de los filósofos, la multiforme Biblioteca habrá producido el idioma inaudito que se requiere y los vocabularios y gramáticas de ese idioma. Hace ya cuatro siglos que los hombres fatigan los hexágonos... Hay buscadores oficiales, inquisidores. Yo los he visto en el desempeño de su función: llegan siempre rendidos; hablan de una escalera sin peldaños que casi los mató; hablan de galerías y de escaleras con el bibliotecario; alguna vez, toman el libro más cercano y lo hojean, en busca de palabras infames. Visiblemente, nadie espera descubrir nada.
A la desaforada esperanza, sucedió, como es natural, una depresión excesiva. La certidumbre de que algún anaquel en algún hexágono encerraba libros preciosos y de que esos libros preciosos eran inaccesibles, pareció casi intolerable. Una secta blasfema sugirió que cesaran las buscas y que todos los hombres barajaran letras y símbolos, hasta construir, mediante un improbable don del azar, esos libros canónicos. Las autoridades se vieron obligadas a promulgar órdenes severas. La secta desapareció, pero en mi niñez he visto hombres viejos que largamente se ocultaban en las letrinas, con unos discos de metal en un cubilete prohibido, y débilmente remedaban el divino desorden.
Otros, inversamente, creyeron que lo primordial era eliminar las obras inútiles. Invadían los hexágonos, exhibían credenciales no siempre falsas, hojeaban con fastidio un volumen y condenaban anaqueles enteros: a su furor higiénico, ascético, se debe la insensata perdición de millones de libros. Su nombre es execrado, pero quienes deploran los «tesoros» que su frenesí destruyó, negligen dos hechos notorios. Uno: la Biblioteca es tan enorme que toda reducción de origen humano resulta infinitesimal. Otro: cada ejemplar es único, irreemplazable, pero (como la Biblioteca es total) hay siempre varios centenares de miles de facsímiles imperfectos: de obras que no difieren sino por una letra o por una coma. Contra la opinión general, me atrevo a suponer que las consecuencias de las depredaciones cometidas por los Purificadores, han sido exageradas por el horror que esos fanáticos provocaron. Los urgía el delirio de conquistar los libros del Hexágono Carmesí: libros de formato menor que los naturales; omnipotentes, ilustrados y mágicos.
También sabemos de otra superstición de aquel tiempo: la del Hombre del Libro. En algún anaquel de algún hexágono (razonaron los hombres) debe existir un libro que sea la cifra y el compendio perfecto de todos los demás: algún bibliotecario lo ha recorrido y es análogo a un dios. En el lenguaje de esta zona persisten aún vestigios del culto de ese funcionario remoto. Muchos peregrinaron en busca de Él. Durante un siglo fatigaron en vano los más diversos rumbos. ¿Cómo localizar el venerado hexágono secreto que lo hospedaba? Alguien propuso un método regresivo: Para localizar el libro A, consultar previamente un libro B que indique el sitio de A; para localizar el libro B, consultar previamente un libro C, y así hasta lo infinito... En aventuras de ésas, he prodigado y consumido mis años. No me parece inverosímil que en algún anaquel del universo haya un libro total; ruego a los dioses ignorados que un hombre - ¡uno solo, aunque sea, hace miles de años! - lo haya examinado y leído. Si el honor y la sabiduría y la felicidad no son para mí, que sean para otros. Que el cielo exista, aunque mi lugar sea el infierno. Que yo sea ultrajado y aniquilado, pero que en un instante, en un ser, Tu enorme Biblioteca se justifique.
Afirman los impíos que el disparate es normal en la Biblioteca y que lo razonable (y aun la humilde y pura coherencia) es una casi milagrosa excepción. Hablan (lo sé) de «la Biblioteca febril, cuyos azarosos volúmenes corren el incesante albur de cambiarse en otros y que todo lo afirman, lo niegan y lo confunden como una divinidad que delira». Esas palabras que no sólo denuncian el desorden sino que lo ejemplifican también, notoriamente prueban su gusto pésimo y su desesperada ignorancia. En efecto, la Biblioteca incluye todas las estructuras verbales, todas las variaciones que permiten los veinticinco símbolos ortográficos, pero no un solo disparate absoluto. Inútil observar que el mejor volumen de los muchos hexágonos que administro se titula «Trueno peinado», y otro «El calambre de yeso» y otro «Axaxaxas mlo». Esas proposiciones, a primera vista incoherentes, sin duda son capaces de una justificación criptográfica o alegórica; esa justificación es verbal y, ex hypothesi, ya figura en la Biblioteca. No puedo combinar unos caracteres dhcmrlchtdj que la divina Biblioteca no haya previsto y que en alguna de sus lenguas secretas no encierren un terrible sentido. Nadie puede articular una sílaba que no esté llena de ternuras y de temores; que no sea en alguno de esos lenguajes el nombre poderoso de un dios. Hablar es incurrir en tautologías. Esta epístola inútil y palabrera ya existe en uno de los treinta volúmenes de los cinco anaqueles de uno de los incontables hexágonos, y también su refutación. (Un número n de lenguajes posibles usa el mismo vocabulario; en algunos, el símbolo biblioteca admite la correcta definición ubicuo y perdurable sistema de galerías hexagonales, pero biblioteca es pan o pirámide o cualquier otra cosa, y las siete palabras que la definen tienen otro valor. Tú, que me lees, ¿estás seguro de entender mi lenguaje?).
La escritura metódica me distrae de la presente condición de los hombres. La certidumbre de que todo está escrito nos anula o nos afantasma. Yo conozco distritos en que los jóvenes se prosternan ante los libros y besan con barbarie las páginas, pero no saben descifrar una sola letra. Las epidemias, las discordias heréticas, las peregrinaciones que inevitablemente degeneran en bandolerismo, han diezmado la población. Creo haber mencionado los suicidios, cada año más frecuentes. Quizá me engañen la vejez y el temor, pero sospecho que la especie humana - la única - está por extinguirse y que la Biblioteca perdurará: iluminada, solitaria, infinita, perfectamente inmóvil, armada de volúmenes preciosos, inútil, incorruptible, secreta.
Acabo de escribir infinita. No he interpolado ese adjetivo por una costumbre retórica; digo que no es ilógico pensar que el mundo es infinito. Quienes lo juzgan limitado, postulan que en lugares remotos los corredores y escaleras y hexágonos pueden inconcebiblemente cesar, lo cual es absurdo. Quienes la imaginan sin límites, olvidan que los tiene el número posible de libros. Yo me atrevo a insinuar esta solución del antiguo problema: La biblioteca es ilimitada y periódica. Si un eterno viajero la atravesara en cualquier dirección, comprobaría al cabo de los siglos que los mismos volúmenes se repiten en el mismo desorden (que, repetido, sería un orden: el Orden). Mi soledad se alegra con esa elegante esperanza.

FIN


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Re: Letra nga Amerika Latine

JORGE LUIS BORGES

EL ALEPH

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La candente mañana de febrero en que Beatriz Viterbo murió, después de una imperiosa agonía que no se rebajó un solo instante ni al sentimentalismo ni al miedo, noté que las carteleras de fierro de la Plaza Constitución habían renovado no sé qué aviso de cigarrillos rubios; el hecho me dolió, pues comprendí que el incesante y vasto universo ya se apartaba de ella y que ese cambio era el primero de una serie infinita. Cambiará el universo pero yo no, pensé con melancólica vanidad; alguna vez, lo sé, mi vana devoción la había exasperado; muerta, yo podía consagrarme a su memoria, sin esperanza, pero también sin humillación. Consideré que el 30 de abril era su cumpleaños; visitar ese día la casa la calle Garay para saludar a su padre y a Carlos Argentino Daneri, su primo hermano, era un acto cortés, irreprochable, tal vez ineludible. De nuevo aguardaría en el crepúsculo de la abarrotada salita, de nuevo estudiaría las circunstancias de sus muchos retratos, Beatriz Viterbo, de perfil, en colores; Beatriz, con antifaz, en los carnavales de 1921; la primera comunión de Beatriz; Beatriz, el día de su boda con Roberto Alessandri; Beatriz, poco después del divorcio, en un almuerzo del Club Hípico; Beatriz, en Quilmes, con Delia San Marco Porcel y Carlos Argentino; Beatriz, con el pekinés que le regaló Villegas Haedo; Beatriz, de frente y de tres cuartos, sonriendo; la mano en el mentón... No estaría obligado, como otras veces, a justificar mi presencia con módicas ofrendas de libros: libros cuyas páginas, finalmente, aprendí a cortar, para no comprobar, meses después, que estaban intactos.
Beatriz Viterbo murió en 1929; desde entonces no dejé pasar un 30 de abril sin volver a su casa. Yo solía llegar a las siete y cuarto y quedarme unos veinticinco minutos; cada año aparecía un poco más tarde y me quedaba un rato más; en 1933, una lluvia torrencial me favoreció: tuvieron que invitarme a comer. No desperdicié, como es natural, ese buen precedente; en 1934, aparecí, ya dadas las ocho con un alfajor santafecino; con toda naturalidad me quedé a comer. Así, en aniversarios melancólicos y vanamente eróticos, recibí gradualmente confidencias de Carlos Argentino Daneri.
Beatriz era alta, frágil, muy ligeramente inclinada: había en su andar (si el oximoron es tolerable) una como graciosa torpeza, un principio de éxtasis; Carlos Argentino es rosado, considerable, canoso, de rasgos finos. Ejerce no sé qué cargo subalterno en una biblioteca ilegible de los arrabales del Sur; es autoritario, pero también es ineficaz; aprovechaba, hasta hace muy poco, las noches y las fiestas para no salir de su casa. A dos generaciones de distancia, la ese italiana y la copiosa gesticulación italiana sobreviven en él. Su actividad mental es continua, apasionada, versátil y del todo insignificante. Abunda en inservibles analogías y en ociosos escrúpulos. Tiene (como Beatriz)grandes y afiladas manos hermosas. Durante algunos meses padeció la obsesión de Paul Fort, menos por sus baladas que por la idea de una gloria intachable. "Es el Príncipe de los poetas en Francia", repetía con fatuidad. "En vano te revolverás contra él; no lo alcanzará, no, la más inficionada de tus saetas."
El 30 de abril de 1941 me permití agregar al alfajor una botella de coñac del país. Carlos Argentino lo probó, lo juzgó interesante y emprendió, al cabo de unas copas, una vindicación del hombre moderno
- Lo evoco - dijo con una admiración algo inexplicable - en su gabinete de estudio, como si dijéramos en la torre albarrana de una ciudad, provisto de teléfonos, de telégrafos, de fonógrafos, de aparatos de radiotelefonía, de cinematógrafos, de linternas mágicas, de glosarios, de horarios, de prontuarios, de boletines...
Observó que para un hombre así facultado el acto de viajar era inútil; nuestro siglo XX había transformado la fábula de Mahoma y de la montaña; las montañas, ahora convergían sobre el moderno Mahoma.
Tan ineptas me parecieron esas ideas, tan pomposa y tan vasta su exposición, que las relacioné inmediatamente con la literatura; le dije que por qué no las escribía. Previsiblemente respondió que ya lo había hecho: esos conceptos, y otros no menos novedosos, figuraban en el Canto Augural, Canto Prologal o simplemente Canto-Prólogo de un poema en el que trabajaba hacía muchos años, sin réclame, sin bullanga ensordecedora, siempre apoyado en esos dos báculos que se llaman el trabajo y la soledad. Primero abría las compuertas a la imaginación; luego hacía uso de la lima. El poema se titulaba La Tierra; tratábase de una descripción del planeta, en la que no faltaban, por cierto, la pintoresca digresión y el gallardo apóstrofe.
Le rogué que me leyera un pasaje, aunque fuera bre- ve. Abrió un cajón del escritorio, sacó un alto legajo de hojas de block estampadas con el membrete de la Biblioteca Juan Crisóstomo Lafinur y leyó con sonora satisfacción.
He visto, como el griego, las urbes de los hombres,
Los trabajos, los días de varia luz, el hambre;
No corrijo los hechos, no falseo los nombres,
Pero el voyage que narro, es... autour de ma chambre.
Estrofa a todas luces interesante - dictaminó -. El primer verso granjea el aplauso del catedrático, del académico, del helenista, cuando no de los eruditos a la violeta, sector considerable de la opinión; el segundo pasa de Homero a Hesíodo (todo un implícito homenaje, en el frontis del flamante edificio, al padre de la poesía didáctica), no sin remozar un procedimiento cuyo abolengo está en la Escritura, la enumeración, congerie o conglobación; el tercero - ¿barroquismo, decadentismo, culto depurado y fanático de la forma? - consta de dos hemistiquios gemelos; el cuarto francamente bilingüe, me asegura el apoyo incondicional de todo espíritu sensible a los desenfados envites de la facecia. Nada diré de la rima rara ni de la ilustración que me permite ¡sin pedantismo!acumular en cuatro versos tres alusiones eruditas que abarcan treinta siglos e apretada literatura: la primera a la Odisea, la segunda a los Trabajos y días, la tercera a la bagatela inmortal que nos depararan los ocios de la pluma del saboyano...Comprendo una vez más que el arte moderno exige el bálsamo de la risa, el scherzo. ¡Decididamente, tiene la palabra Goldoni!
Otras muchas estrofas me leyó que también obtuvieron su aprobación y su comentario profuso; nada memorable había en ella; ni siquiera la juzgué mucho peores que la anterior. En su escritura habían colaborado la aplicación, la resignación y el azar; las virtudes que Daneri les atribuía eran posteriores. Comprendí que el trabajo del poeta no estaba en la poesía; estaba en la invención de razones para que la poesía fuera admirable; naturalmente, ese ulterior trabajo modificaba la obra para él, pero no para otro. La dicción oral de Daneri era extravagante; su torpeza métrica le vedó, salvo contadas veces, transmitir esa extravagancia al poema.
Una sola vez en mi vida he tenido la ocasión de examinar los quince mil dodecasílabos del Polyolbion, esa epopeya topográfica en la que Michael Drayton registró la fauna, la flora, la hidrografía, la orografía, la historia militar y monástica de Inglaterra; estoy seguro de que ese producto considerable, pero limitado, es menos tedioso que la vasta empresa congénere de Carlos Argentino. Éste se proponía versificar toda la redondez del planeta; en 1941 ya había despachado unas hectáreas del estado de Queensland, más de un kilómetro del curso del Ob, un gasómetro al Norte de Veracruz, las principales casas de comercio de la parroquia de la Concepción, la quinta de Mariana Cambaceres de Alvear en la calla Once de Setiembre, en Belgrano, y un establecimiento de baños turcos no lejos del acreditado acuario de Brighton. Me leyó ciertos laboriosos pasajes de la zona australiana de su poema; esos largos e informes alejandrinos carecían de la relativa agitación del prefacio. Copio una estrofa:
Sepan. A manderecha del poste rutinario,
(Viniendo, claro está, desde el Nornoroeste)
Se aburre una osamenta - ¿Color? Blanquiceleste –
Que da al corral de ovejas catadura de osario.
- ¡Dos audacias - gritó con exultación - rescatadas, te oigo mascullar, por el éxito! Lo admito, lo admito. Una, el epíteto rutinario, que certeramente denuncia, en passant, el inevitable tedio inherente a las faenas pastoriles y agrícolas, tedio que ni las geórgicas ni nuestro ya laureado Don Segundo se atrevieron jamás a denunciar así, al rojo vivo. Otra, el enérgico prosaísmo se aburre una osamenta, que el melindroso querrá excomulgar con horror, pero que apreciará más que su vida el crítico de gusto viril. Todo el verso, por lo demás, es de muy subidos quilates. El segundo hemistiquio entabla animadísima charla con el lector, se adelanta a su viva curiosidad, le pone una pregunta en la boca y la satisface... al instante. ¿Y qué me dices de ese hallazgo blanquiceleste? El pintoresco neologismo sugiere el cielo, que es un factor importantísimo del paisaje australiano. Sin esa evocación resultarían demasiado sombrías las tintas del boceto y el lector se vería compelido a cerrar el volumen, herida en lo más íntimo el alma de incurable y negra melancolía.
Hacia la medianoche me despedí.
Dos domingos después, Daneri me llamó por teléfono, entiendo que por primera vez en la vida. Me propuso que nos reuniéramos a las cuatro, "para tomar juntos la leche, en el contiguo salón-bar que el progresismo de Zunino y de Zungri - los propietarios de mi casa, recordarás - inaugura en la esquina; confitería que te importará conocer". Acepté, con más resignación que entusiasmo. Nos fue difícil encontrar mesa; el "salón-bar", inexorablemente moderno, era apenas un poco menos atroz que mis previsiones; en las mesas vecinas el excitado público mencionaba las sumas invertidas sin regatear por Zunino y por Zungri. Carlos Argentino fingió asombrarse de no sé qué primores de la instalación de la luz (que, sin duda, ya conocía) y me dijo con cierta severidad:
- Mal de tu grado habrás de reconocer que este local se parangona con los más encopetados de Flores.
Me releyó, después, cuatro o cinco páginas del poema. Las había corregido según un depravado principio de ostentación verbal: donde antes escribió azulado, ahora abundaba en azulino, azulenco y hasta azulillo. La palabra lechoso no era bastante fea para él; en la impetuosa descripción de un lavadero de lanas, prefería lactario, lacticinoso, lactescente, lechal... Denostó con amargura a los críticos; luego, más benigno, los equiparó a esas personas, "que no disponen de metales preciosos ni tampoco de prensas de vapor, laminadores y ácidos sulfúricos para la acuñación de tesoros, pero que pueden indicar a los otros el sitio de un tesoro". Acto continuo censuró la prologomanía, "de la que ya hizo mofa, en la donosa prefación del Quijote, el Príncipe de los Ingenios". Admitió, sin embargo, que en la portada de la nueva obra convenía el prólogo vistoso, el espaldarazo firmado por el plumífero de garra, de fuste. Agregó que pensaba publicar los cantos iniciales de su poema. Comprendí, entonces, la singular invitación telefónica; el hombre iba a pedirme que prologara su pedantesco fárrago. Mi temor resultó infundado: Carlos Argentino observó, con admiración rencorosa, que no creía errar el epíteto al calificar de sólido el prestigio logrado en todos los círculos por Álvaro Melián Lafinur, hombre de letras, que, si yo me empeñaba, prologaría con embeleso el poema. Para evitar el más imperdonable de los fracasos, yo tenía que hacerme portavoz de dos méritos inconcusos: la perfección formal y el rigor científico, "porque ese dilatado jardín de tropos, de figuras, de galanuras, no tolera un solo detalle que no confirme la severa verdad". Agregó que Beatriz siempre se había distraído con Álvaro.
Asentí, profusamente asentí. Aclaré, para mayor verosimilitud, que no hablaría el lunes con Álvaro, sino el jueves: en la pequeña cena que suele coronar toda reunión del Club de Escritores. (No hay tales cenas, pero es irrefutable que las reuniones tienen lugar los jueves, hecho que Carlos Argentino Daneri podía comprobar en los diarios y que dotaba de cierta realidad a la frase.) Dije, entre adivinatorio y sagaz, que antes de abordar el tema del prólogo describiría el curioso plan de la obra. Nos despedimos; al doblar por Bernardo de Irigoyen, encaré con toda imparcialidad los porvenires que me quedaban: a) hablar con Álvaro y decirle que el primo hermano aquel de Beatriz(ese eufemismo explicativo me permitiría nombrarla) había elaborado un poema que parecía dilatar hasta lo infinito las posibilidades de la cacofonía y del caos; b) no hablar con Álvaro. Preví, lúcidamente, que mi desidia optaría por b.
A partir del viernes a primera hora, empezó a inquietarme el teléfono. Me indignaba que ese instrumento, que algún día produjo la irrecuperable voz de Beatriz, pudiera rebajarse a receptáculo de las inútiles y quizás coléricas quejas de ese engañado Carlos Argentino Daneri. Felizmente nada ocurrió - salvo el rencor inevitable que me inspiró aquel hombre que me había impuesto una delicada gestión y luego me olvidaba.
El teléfono perdió sus terrores, pero a fines de octubre, Carlos Argentino me habló. Estaba agitadísimo; no identifiqué su voz, al principio. Con tristeza y con ira balbuceó que que esos ya ilimitados Zunino y Zungri, so pretexto de ampliar su desaforada confitería, iban a demoler su casa.
-¡La casa de mis padres, mi casa, la vieja casa inveterada de la calle Garay! - repitió, quizá olvidando su pesar en la melodía.
No me resultó muy difícil compartir su congoja. Ya cumplidos los cuarenta años, todo cambio es un símbolo detectable del pasaje del tiempo; además se trataba de una casa que, para mí, aludía infinitamente a Beatriz. Quise aclarar ese delicadísimo rasgo; mi interlocutor no me oyó. Dijo que si Zunino y Zungri persistían en ese propósito absurdo, el doctor Zunni, su abogado, los demandaría ipso facto por daños y perjuicios y los obligaría a abonar cien mil nacionales.
El nombre de Zunni me impresionó; su bufete, en Caseros y Tacuarí, es de una seriedad proverbial. Interrogué si éste se había encargado ya del asunto. Daneri dio que le hablaría esa misma tarde. Vaciló y con esa voz llana, impersonal, a que solemos recurrir para confiar algo muy íntimo, dijo que para terminar el poema le era indispensable la casa, pues en un ángulo del sótano había un Aleph. Aclaró que un Aleph es uno de los puntos del espacio que contienen todos los puntos.
- Está en el sótano del comedor - explicó, aligerada su dicción por la angustia -. Es mío, es mío; yo lo descubrí en la niñez, antes de la edad escolar. La escalera del sótano es empinada, mis mis tíos me tenían prohibido el descenso, pero alguien dijo que había un mundo en el sótano. Se refería, lo supe después, a un baúl, pero yo entendí que había un mundo. Bajé secretamente, rodé por la escalera vedada, caí. Al abrir los ojos, vi el Aleph.
-¡El Aleph! - repetí.
-Sí, el lugar donde están, sin confundirse, todos los lugares del orbe, vistos desde todos los ángulos. A nadie revelé mi descubrimiento, pero volví. ¡El niño no podía comprender que le fuera deparado ese privilegio para que el hombre burilara el poema! No me despojarán Zunino y Zungri, no y mil veces no. Código en mano, el doctor Zunni probará que es inajenable mi Aleph.
Traté de razonar.
-Pero, ¿no es muy oscuro el sótano?
-La verdad no penetra un entendimiento rebelde. Si todos los lugares de la Tierra están en el Aleph, ahí estarán todas las luminarias, todas las lámparas, todos los veneros de luz.
-Iré a verlo inmediatamente.
Corté, antes de que pudiera emitir una prohibición. Basta el conocimiento de un hecho para percibir en el acto una serie de rasgos confirmatorios, antes insospechados; me asombró no haber comprendido hasta ese momento que Carlos Argentino era un loco. Todos esos Viterbos, por lo demás... Beatriz(yo mismo suelo repetirlo) era una mujer, una niña de una clarividencia casi implacable, pero había en ella negligencias, distracciones, desdenes, verdaderas crueldades, que tal vez reclamaban una explicación patológica. La locura de Carlos Argentino me colmó de maligna felicidad; íntimamente, siempre nos habíamos detestado.
En la calle Garay, la sirvienta me dijo que tuviera la bondad de esperar. El niño estaba, como siempre, en el sótano, revelando fotografías. Junto al jarrón sin una flor, en el piano inútil, sonreía (más intemporal que anacrónico) el gran retrato de Beatriz, en torpes colores. No podía vernos nadie; en una desesperación de ternura me aproximé al retrato y le dije:
- Beatriz, Beatriz Elena, Beatriz Elena Viterbo, Beatriz querida, Beatriz perdida para siempre, soy yo, soy Borges.
Carlos entró poco después. Habló con sequedad; comprendí que no era capaz de otro pensamiento que de la perdición del Aleph.
- Una copita del seudo coñac - ordenó - y te zampuzarás en el sótano. Ya sabes, el decúbito dorsal es indis-pensable. También lo son la oscuridad, la inmovilidad, cierta acomodación ocular. Te acuestas en el piso de la baldosas y fijas los ojos en el decimonono escalón de la pertinente escalera. Me voy, bajo la trampa y te quedas solo. Algún roedor te mete miedo ¡fácil empresa! A los pocos minutos ves el Aleph. ¡El microcosmo de alquimistas y cabalistas, nuestro concreto amigo proverbial, el multum in parvo!
Ya en el comedor, agregó:
- Claro está que si no lo ves, tu incapacidad no invalida mi testimonio... Baja; muy en breve podrás entablar un diálogo con todas las imágenes de Beatriz.
Bajé con rapidez, harto de sus palabras insustanciales. El sótano, , apenas más ancho que la escalera, tenía mucho de pozo. Con la mirada, busqué en vano el baúl de que Carlos Argentino me habló. Unos cajones con botellas y unas bolsas de lona entorpecían un ángulo. Carlos tomó una bolsa, la dobló y la acomodó en un sitio preciso.
- La almohada es humildosa - explicó - , pero si la levanto un solo centímetro, no verás ni una pizca y te quedas corrido y avergonzado. Repantiga en el suelo ese corpachón y cuenta diecinueve escalones.
Cumplí con su ridículo requisito; al fin se fue. Cerró cautelosamente la trampa, la oscuridad, pese a una hendija que después distinguí, pudo parecerme total. Súbitamente comprendí mi peligro: me había dejado soterrar por un loco, luego de tomar un veneno. Las bravatas de Carlos transparentaban el íntimo terror de que yo no viera el prodigio; Carlos, para defender su delirio, para no saber que estaba loco tenía que matarme. Sentí un confuso malestar, que traté de atribuir a la rigidez, y no a la operación de un narcótico. Cerré los ojos, los abrí. Entonces vi el Aleph.
Arribo, ahora, al inefable centro de mi relato, empieza aquí, mi desesperación de escritor. Todo lenguaje es un alfabeto de símbolos cuyo ejercicio presupone un pasado que los interlocutores comparten; ¿cómo transmitir a los otros el infinito Aleph, que mi temerosa memoria apenas abarca? Los místicos, en análogo trance prodigan los emblemas: para significar la divinidad, un persa habla de un pájaro que de algún modo es todos los pájaros; Alanus de Insulis, de una esfera cuyo centro está en todas partes y las circunferencia en ninguna; Ezequiel, de un ángel de cuatro caras que a un tiempo se dirige al Oriente y al Occidente, al Norte y al Sur. (No en vano rememoro esas inconcebibles analogías; alguna relación tienen con el Aleph.) Quizá los dioses no me negarían el hallazgo de una imagen equivalente, pero este informe quedaría contaminado de literatura, de falsedad. Por lo demás, el problema central es irresoluble: La enumeración, si quiera parcial, de un conjunto infinito. En ese instante gigantesco, he visto millones de actos deleitables o atroces; ninguno me asombró como el hecho de que todos ocuparan el mismo punto, sin superposición y sin transparencia. Lo que vieron mis ojos fue simultáneo: lo que transcribiré sucesivo, porque el lenguaje lo es. Algo, sin embargo, recogeré.
En la parte inferior del escalón, hacia la derecha, vi una pequeña esfera tornasolada, de casi intolerable fulgor. Al principio la creí giratoria; luego comprendí que ese movimiento era una ilusión producida por los vertiginosos espectáculos que encerraba. El diámetro del Aleph sería de dos o tres centímetros, pero el espacio cósmico estaba ahí, sin disminución de tamaño. Cada cosa (la luna del espejo, digamos) era infinitas cosas, porque yo claramente la veía desde todos los puntos del universo. Vi el populoso mar, vi el alba y la tarde, vi las muchedumbres de América, vi una plateada telaraña en el centro de una negra pirámide, vi un laberinto roto (era Londres), vi interminables ojos inmediatos escrutándose en mí como en un espejo, vi todos los espejos del planeta y ninguno me reflejó, vi en un traspatio de la calle Soler las mismas baldosas que hace treinta años vi en el zaguán de una casa en Frey Bentos, vi racimos, nieve, tabaco, vetas de metal, vapor de agua, vi convexos desiertos ecuatoriales y cada uno de sus granos de arena, vi en Inverness a una mujer que no olvidaré, vi la violenta cabellera, el altivo cuerpo, vi un cáncer de pecho, vi un círculo de tierra seca en una vereda, donde antes hubo un árbol, vi una quinta de Adrogué, un ejemplar de la primera versión inglesa de Plinio, la de Philemont Holland, vi a un tiempo cada letra de cada página (de chico yo solía maravillarme de que las letras de un volumen cerrado no se mezclaran y perdieran en el decurso de la noche), vi la noche y el día contemporáneo, vi un poniente en Querétaro que parecía reflejar el color de una rosa en Bengala, vi mi dormitorio sin nadie, vi en un gabinete de Alkmaar un globo terráqueo entre dos espejos que lo multiplicaban sin fin, vi caballos de crin arremolinada, en una playa del Mar Caspio en el alba, vi la delicada osadura de una mano, vi a los sobrevivientes de una batalla, enviando tarjetas postales, vi en un escaparate de Mirzapur una baraja española, vi las sombras oblicuas de unos helechos en el suelo de un invernáculo, vi tigres, émbolos, bisontes, marejadas y ejércitos, vi todas las hormigas que hay en la tierra, vi un astrolabio persa, vi en un cajón del escritorio (y la letra me hizo temblar) cartas obscenas, increíbles, precisas, que Beatriz había dirigido a Carlos Argentino, vi un adorado monumento en la Chacarita, vi la reliquia atroz de lo que deliciosamente había sido Beatriz Viterbo, vi la circulación de mi propia sangre, vi el engranaje del amor y la modificación de la muerte, vi el Aleph, desde todos los puntos, vi en el Aleph la tierra, vi mi cara y mis vísceras, vi tu cara, y sentí vértigo y lloré, porque mis ojos habían visto ese objeto secreto y conjetural, cuyo nombre usurpan los hombres, pero que ningún hombre ha mirado: el inconcebible universo.
Sentí infinita veneración, infinita lástima.
- Tarumba habrás quedado de tanto curiosear donde no te llaman - dijo una voz aborrecida y jovial - . Aunque te devanes los sesos, no me pagarás en un siglo esta revelación. ¡Qué observatorio formidable, che Borges!
Los pies de Carlos Argentino ocupaban el escalón más alto. En la brusca penumbra, acerté a levantarme y a balbucear:
- Formidable. Sí, formidable.
La indiferencia de mi voz me extrañó. Ansioso, Carlos Argentino insistía:
-¿La viste todo bien, en colores?
En ese instante concebí mi venganza. Benévolo, manifiestamente apiadado, nervioso, evasivo, agradecí a Carlos Argentino Daneri la hospitalidad de su sótano y lo insté a aprovechar la demolición de la casa para alejarse de la perniciosa metrópoli que a nadie ¡créame, que a nadie! perdona. Me negué, con suave energía, a discutir el Aleph; lo abracé, al despedirme y le repetí que el campo y la seguridad son dos grandes médicos.
En la calle, en las escaleras de Constitución, en el subterráneo, me parecieron familiares todas las caras. Temí que no quedara una sola cosa capaz de sorprenderme, temí que no me abandonara jamás la impresión de volver. Felizmente, al cabo de unas noches de insomnio me trabajó otra vez el olvido.
Postdata del 1º de marzo de 1943. A los seis meses de la demolición del inmueble de la calle Garay, la Editorial Procusto no se dejó arredrar por la longitud del considerable poema y lanzó al mercado una selección de "trozos argentinos". Huelga repetir lo ocurrido; Carlos Argentino Daneri recibió el Segundo Premio Nacional de Literatura. El primero fue otorgado al doctor Aita; el tercero al doctor Mario Bonfanti; increíblemente mi obra Los naipes del tahúr no logró un solo voto. ¡Una vez más, triunfaron la incomprensión y la envidia! Hace ya mucho tiempo que no consigo ver a Daneri; los diarios dicen que pronto nos dará otro volumen. Su afortunada pluma (no entorpecida ya por el Aleph) se ha consagrado a versificar los epítomes del doctor Acevedo Díaz.
Dos observaciones quiero agregar: una sobre la naturaleza del Aleph; otra, sobre su nombre. Éste, como es sabido, es el de la primera letra del alfabeto de la lengua sagrada. Su aplicación al círculo de mi historia no parece casual. Para la Cábala esa letra significa el En Soph, la ilimitada y pura divinidad; también se dijo que tiene la forma de un hombre que señala el cielo y la tierra, para indicar que el mundo inferior es el espejo y es el mapa del superior; para la Mengenlehre, es el símbolo de los números transfinitos, en los que el todo no es mayor que alguna de las partes. Yo querría saber: ¿Eligió Carlos Argentino ese nombre, o lo leyó, aplicado a otro punto donde convergen todos los puntos, en alguno de los textos innumerables que el Aleph de su casa le reveló? Por increíble que parezca yo creo que hay (o que hubo) otro Aleph, yo creo que el Aleph de la calle Garay era un falso Aleph.
Doy mis razones. Hacia 1867 el capitán Burton ejerció en el Brasil el cargo de cónsul británico; en julio de 1942 Pedro Henríquez Ureña descubrió en una biblioteca de Santos un manuscrito suyo que versaba sobre el espejo que atribuye el Oriente a Iskandar Zu al-Karnayn, o Alejandro Bicorne de Macedonia. En su cristal se reflejaba el universo entero. Burton menciona otros artificios congéneres - la séptuple copa de Kai Josrú, el espejo que Tárik Benzeyad encontró en una torre (1001 Noches, 272), el espejo que Luciano de Samosata pudo examinar en la Luna (Historia Verdadera, I, 26), la lanza especular que el primer libro del Satyricon de Capella atribuye a Júpiter, el espejo universal de Merlín, "redondo y hueco y semejante a un mundo de vidrio" (The Faerie Queene, III, 2, 19) - , y añade estas curiosas palabras: "Pero los anteriores(además del defecto de no existir) son meros instrumentos de óptica. Los fieles que concurren a la mezquita de Amr, en el Cairo, saben muy bien que el universo está en el interior de una de las columnas de piedra que rodean el patio central... Nadie, claro está, puede verlo, pero quienes acercan el oído a la superficie declaran percibir, al poco tiempo, su atareado rumor... la mezquita data del siglo VII; las columnas proceden de otros templos de religiones anteislámicas, pues como ha escrito Abenjaldún: En las repúblicas fundadas por nómadas, es indispensable el concurso de forasteros para todo lo que sea albañilería".
¿Existe ese Aleph en lo íntimo de una piedra? ¿Lo he visto cuando vi todas las cosas y lo he olvidado? Nuestra mente es porosa para el olvido; yo mismo estoy falseando y perdiendo, bajo la trágica erosión de los años, los rasgos de Beatriz.
 

Ema

Goddes
Re: Letra nga Amerika Latine

UTOPÍA DE UN HOMBRE QUE ESTÁ CANSADO

Jorge Luis Borges

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Llamóla Utopía, voz griega cuyo
significado es no hay tal lugar.
Quevedo

No hay dos cerros iguales, pero en cualquier lugar de la tierra la llanura es una y la misma. Yo iba por un camino de la llanura. Me pregunté sin mucha curiosidad si estaba en Oklahoma o en Texas o en la región que los literatos llaman la pampa. Ni a derecha ni a izquierda vi un alambrado. Como otras veces repetí despacio estas líneas, de Emilio Oribe:
En medio de la pánica llanura interminable. Y cerca del Brasil, que van creciendo y agrandándose.
El camino era desparejo. Empezó a caer la lluvia. A unos doscientos o trescientos metros vi la luz de una casa. Era baja y rectangular y cercada de árboles. Me abrió la puerta un hombre tan alto que casi me dio miedo. Estaba vestido de gris. Sentí que esperaba a alguien. No había cerradura en la puerta.
Entramos en una larga habitación con las paredes de madera. Pendía del cielorraso una lámpara de luz amarillenta. La mesa, por alguna razón, me extrañó. En la mesa había una clepsidra, la primera que he visto, fuera de algún grabado en acero. El hombre me indicó una de las sillas.
Ensayé diversos idiomas y no nos entendimos. Cuando él habló lo hizo en latín. Junté mis ya lejanas memorias de bachiller y me preparé para el diálogo.
- Por la ... diálogo.
- Por la ropa - me dijo -, veo que llegas de otro siglo. La diversidad de las lenguas favorecía la diversidad de los pueblos y aún de las guerras; la tierra ha regresado al latín. Hay quienes temen que vuelva a degenerar en francés, en lemosín o en papiamento, pero el riesgo no es inmediato. Por lo demás, ni lo que ha sido ni lo que será me interesan.
No dije nada y agregó:
- Si no te desagrada ver comer a otro ¿quieres acompañarme?
Comprendí que advertía mi zozobra y dije que sí.
Atravesamos un corredor con puertas laterales, que daba a una pequeña cocina en la que todo era de metal. Volvimos con la cena en una bandeja: boles con copos de maíz, un racimo de uvas, una fruta desconocida cuyo sabor me recordó el del higo, y una gran jarra de agua. Creo que no había pan. Los rasgos de mi huésped eran agudos y tenía algo singular en los ojos. No olvidaré ese rostro severo y pálido que no volveré a ver. No gesticulaba al hablar.
Me trababa la obligación del latín, pero finalmente le dije:
- ¿No te asombra mi súbita aparición?
- No - me replicó -, tales visitas nos ocurren de siglo en siglo. No duran mucho; a más tardar estarás mañana en tu casa.
La certidumbre de su voz me bastó. Juzgué prudente presentarme:
- Soy Eudoro Acevedo. Nací en 1897, en la ciudad de Buenos Aires. He cumplido ya setenta años Soy profesor de letras inglesas y americanas y escritor de cuentos fantásticos.
- Recuerdo haber leído sin desagrado - me contestó - dos cuentos fantásticos. Los Viajes del Capitán Lemuel Gulliver, que muchos consideran verídicos, y la Suma Teológica. Pero no hablemos de hechos. Ya a nadie le importan los hechos. Son meros puntos de partida para la invención y el razonamiento. En las escuelas nos enseñan la duda y el arte del olvido. Ante todo el olvido de lo personal y local. Vivimos en el tiempo, que es sucesivo, pero tratamos de vivir sub specie aeternitatis. Del pasado nos quedan algunos nombres, que el lenguaje tiende a olvidar. Eludimos las inútiles precisiones. No hay cronología ni historia. No hay tampoco estadísticas. Me has dicho que te llamas Eudoro; yo no puedo decirte cómo me llamo, porque me dicen alguien.
- ¿Y cómo se llamaba tu padre?
- No se llamaba.
En una de las paredes vi un anaquel. Abrí un volumen al azar; las letras eran claras e indescifrables y trazadas a mano. Sus líneas angulares me recordaron el alfabeto rúnico, que, sin embargo, sólo se empleó para la escritura epigráfica. Pensé que los hombres del porvenir no sólo eran más altos sino más diestros. Instintivamente miré los largos y finos dedos del hombre.
Éste me dijo:
- Ahora vas a ver algo que nunca has visto.
Me tendió con cuidado un ejemplar de la Utopía de More, impreso en Basilea en el año 1518 y en el que faltaban hojas y láminas.
No sin fatuidad repliqué:
- Es un libro impreso. En casa habrá más de dos mil, aunque no tan antiguos ni tan preciosos.
Leí en voz alta el título.
El otro se rió.
- Nadie puede leer dos mil libros. En los cuatro siglos que vivo no habré pasado de una media docena. Además no importa leer sino releer. La imprenta, ahora abolida, ha sido uno de los peores males del hombre, ya que tendió a multiplicar hasta el vértigo textos innecesarios.
- En mi curioso ayer - contesté -, prevalecía la superstición de que entre cada tarde y cada mañana ocurren hechos que es una vergüenza ignorar. El planeta estaba poblado de espectros colectivos, el Canadá, el Brasil, el Congo Suizo y el Mercado Común. Casi nadie sabía la historia previa de esos entes platónicos, pero sí los más ínfimos pormenores del último congreso de pedagogos, la inminente ruptura de relaciones y los mensajes que los presidentes mandaban, elaborados por el secretario del secretario con la prudente imprecisión que era propia del género.
Todo esto se leía para el olvido, porque a las pocas horas lo borrarían otras trivialidades. De todas las funciones, la del político era sin duda la más pública. Un embajador o un ministro era una suerte de lisiado que era preciso trasladar en largos y ruidosos vehículos, cercado de ciclistas y granaderos y aguardado por ansiosos fotógrafos. Parece que les hubieran cortado los pies, solía decir mi madre. Las imágenes y la letra impresa eran más reales que las cosas. Sólo lo publicado era verdadero. Esse est percipi (ser es ser retratado) era el principio, el medio y el fin de nuestro singular concepto del mundo. En el ayer que me tocó, la gente era ingenua; creía que una mercadería era buena porque así lo afirmaba y lo repetía su propio fabricante. También eran frecuentes los robos, aunque nadie ignoraba que la posesión de dinero no da mayor felicidad ni mayor quietud.
- ¿Dinero? - repitió -. Ya no hay quien adolezca de pobreza, que habrá sido insufrible, ni de riqueza, que habrá sido la forma más incómoda de la vulgaridad. Cada cual ejerce un oficio.
- Como los rabinos - le dije.
Pareció no entender y prosiguió.
- Tampoco hay ciudades. A juzgar por las ruinas de Bahía Blanca, que tuve la curiosidad de explorar, no se ha perdido mucho. Ya que no hay posesiones, no hay herencias. Cuando el hombre madura a los cien años, está listo a enfrentarse consigo mismo y con su soledad. Ya ha engendrado un hijo.
- ¿Un hijo? - pregunté.
- Sí. Uno solo. No conviene fomentar el género humano. Hay quienes piensan que es un órgano de la divinidad para tener conciencia del universo, pero nadie sabe con certidumbre si hay tal divinidad. Creo que ahora se discuten las ventajas y desventajas de un suicidio gradual o simultáneo de todos los hombres del mundo. Pero volvamos a lo nuestro.
Asentí.
- Cumplidos los cien años, el individuo puede prescindir del amor y de la amistad. Los males y la muerte involuntaria no lo amenazan. Ejerce alguna de las artes, la filosofía, las matemáticas o juega a un ajedrez solitario. Cuando quiere se mata. Dueño el hombre de su vida, lo es también de su muerte.
- ¿Se trata de una cita? - le pregunté.
- Seguramente. Ya no nos quedan más que citas. La lengua es un sistema de citas.
- ¿Y la grande aventura de mi tiempo, los viajes espaciales? - le dije.
- Hace ya siglos que hemos renunciado a esas traslaciones, que fueron ciertamente admirables. Nunca pudimos evadirnos de un aquí y de un ahora.
Con una sonrisa agregó:
- Además, todo viaje es espacial. Ir de un planeta a otro es como ir a la granja de enfrente. Cuando usted entró en este cuarto estaba ejecutando un viaje espacial.
- Así es - repliqué. También se hablaba de sustancias químicas y de animales zoológicos.
El hombre ahora me daba la espalda y miraba por los cristales. Afuera, la llanura estaba blanca de silenciosa nieve y de luna.
Me atreví a preguntar:
- ¿Todavía hay museos y bibliotecas?
- No. Queremos olvidar el ayer, salvo para la composición de elegías. No hay conmemoraciones ni centenarios ni efigies de hombres muertos. Cada cual debe producir por su cuenta las ciencias y las artes que necesita.
- En tal caso, cada cual debe ser su propio Bernard Shaw, su propio Jesucristo y su propio Arquímedes.
Asintió sin una palabra. Inquirí:
- ¿Qué sucedió con los gobiernos?
- Según la tradición fueron cayendo gradualmente en desuso. Llamaban a elecciones, declaraban guerras, imponían tarifas, confiscaban fortunas, ordenaban arrestos y pretendían imponer la censura y nadie en el planeta los acataba. La prensa dejó de publicar sus colaboraciones y sus efigies. Los políticos tuvieron que buscar oficios honestos; algunos fueron buenos cómicos o buenos curanderos. La realidad sin duda habrá sido más compleja que este resumen.
Cambió de tono y dijo:
- He construido esta casa, que es igual a todas las otras. He labrado estos muebles y estos enseres. He trabajado el campo, que otros cuya cara no he visto, trabajarán mejor que yo. Puedo mostrarte algunas cosas.
Lo seguí a una pieza contigua. Encendió una lámpara, que también pendía del cielorraso. En un rincón vi un arpa de pocas cuerdas. En las paredes había telas rectangulares en las que predominaban los tonos del color amarillo. No parecían proceder de la misma mano.
- Ésta es mi obra - declaró.
Examiné las telas y me detuve ante la más pequeña, que figuraba o sugería una puesta de sol y que encerraba algo infinito.
- Si te gusta puedes llevártela, como recuerdo de un amigo futuro - dijo con palabra tranquila.
Le agradecí, pero otras telas me inquietaron. No diré que estaban en blanco, pero sí casi en blanco.
- Están pintadas con colores que tus antiguos ojos no pueden ver.
Las delicadas manos tañeron las cuerdas del arpa y apenas percibí uno que otro sonido.
Fue entonces cuando se oyeron los golpes.
Una alta mujer y tres o cuatro hombres entraron en la casa. Diríase que eran hermanos o que los había igualado el tiempo. Mi huésped habló primero con la mujer.
- Sabía que esta noche no faltarías. ¿Lo has visto a Nils?
- De tarde en tarde. Sigue siempre entregado a la pintura.
- Esperemos que con mejor fortuna que su padre.
Manuscritos, cuadros, muebles, enseres; no dejamos nada en la casa.
La mujer trabajó a la par de los hombres. Me avergoncé de mi flaqueza que casi no me permitía ayudarlos. Nadie cerró la puerta y salimos, cargados con las cosas. Noté que el techo era a dos aguas.
A los quince minutos de caminar, doblamos por la izquierda. En el fondo divisé una suerte de torre, coronada por una cúpula.
- Es el crematorio - dijo alguien -. Adentro está la cámara letal. Dicen que la inventó un filántropo cuyo nombre, creo, era Adolfo Hitler.
El cuidador, cuya estatura no me asombró, nos abrió la verja.
Mi huésped susurró unas palabras. Antes de entrar en el recinto se despidió con un ademán.
- La nieve seguirá - anunció la mujer.
En mi escritorio de la calle México guardo la tela que alguien pintará, dentro de miles de años, con materiales hoy dispersos en el planeta.


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