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nga "Alla ricerca del Tempo perduto - All'ombra delle fanciulle in fiore - Intorno a Madame Swann)
E non solo non ci si impadronisce subito delle opere davvero rare, ma all'interno di ciascuna di esse, ed è quanto mi accadde con la Sonata di Vinteuil, le parti che si colgono per prima sono proprio le meno pregiate. E così, il mio errore non era solo di pensare che l'opera non mi riservasse più niente (il che mi indusse a lasciar passare molto tempo senza cercare di ascoltarla) dal momento che Madame Swann me ne aveva proposto la frase più famosa (in questo non ero meno sciocco di chi non spera più di provare stupore davanti a San Marco di Venezia perché qualche fotografia gli ha rilevato la forma delle sue cupole). C'era ben altro: anche quando l'ebbi ascoltata da cima a fondo, la Sonata mi restò quasi del tutto invisibile, come un monumento del quale la distanza o la bruma non lasciano trasparire che esigue porzioni. Di qui la malinconia che accompagna la conoscenza di simili opere, come di tutto ciò che si realizza nel tempo. Quando l'essenza più nascosta della Sonata di Vinteuil mi si manifestò, quel che avevo còlto, preferito a tutta prima, cominciava già, strappato dall'abitudine al controllo della mia sensibilità, a sfuggirmi, ad allontanarsi da me. Non avendo potuto amare che in tempi successivi tutto ciò che la Sonata mi offriva, non la possedetti mai per intero: somigliava alla vita. Ma, meno deludenti di questa, i grandi capolavori non cominciano mai col darci il meglio di sé. Nella Sonata di Vinteuil, le bellezze che si scoprono per prime sono anche quelle di cui ci si stanca più in fretta, e indubbiamente per la stessa ragione, cioè perché sono quelle che meno differiscono da quanto già conoscevamo. Ma quando queste si sono allontanate, ci resta da amare quella certa frase il cui ordine, troppo nuovo per offrire al nostro intelletto altro che confusione, ce l'aveva resa impercettibile e serbata intatta; allora, lei davanti alla quale passavamo ogni giorno senza saperlo e che s'era tenuta in disparte, lei che per il solo potere della sua bellezza era divenuta invisibile e rimasta ignota, viene per ultima a noi. Ma sarà anche l'ultima che non lasceremo. E l'ameremo più a lungo delle altre, perché ci sarà voluto più tempo per amarla. Del resto, il tempo che occorre a un individuo - come occorse a me con quella Sonata - per penetrare un'opera un po' profonda, è il semplice compendio e come il simbolo degli anni, dei secoli a volte, che trascorrono prima che il pubblico possa amare un capolavoro veramente nuovo. E così, per risparmiarsi le incomprensioni della folla, l'uomo di genio si dice che forse, dal momento che i contemporanei mancano del necessario distacco, le opere scritte per la posterità dovrebbero esser lette solo da quest'ultima, come certi dipinti non si possono giudicare bene osservandoli da vicino. Ma, in realtà, ogni vile precauzione per evitare i falsi giudizi è inutile, essi non sono evitabili. A far sì che difficilmente un'opera geniale sia ammirata con sollecitudine, è la circostanza che chi l'ha scritta è straordinario, che pochi gli assomigliano. Ed è proprio la sua opera che, fecondando i rari spiriti capaci di comprenderla, li farà crescere e moltiplicarsi. Sono stati i quartetti di Beethoven (i quartetti n°12, 13, 14 e 15) a far nascere, a infoltire, in cinquant'anni, il pubblico dei quartetti di Beethoven, realizzando in tal modo, come ogni capolavoro, un progresso, se non nel valore degli artisti, almeno nella società degli spiriti, largamente composta oggi di qualcosa ch'era introvabile quando il capolavoro apparve, vale a dire di esseri capaci di amarlo. Quella che noi chiamiamo posterità, è la posterità dell'opera. Bisogna che l'opera (non tenendo conto, per semplificare, dei geni che nello stesso periodo, parallelamente, possono preparare per il futuro un pubblico migliore, di cui non loro ma altri geni godranno il beneficio) si crei da se stessa la propria posterità. Se, dunque, l'opera si tenesse in disparte, non si facesse conoscere che dalla posterità, quest'ultima non sarebbe, nei suoi confronti, la posterità, ma un'assemblea di contemporanei vissuti, semplicemente, cinquant'anni dopo. Bisogna insomma che l'artista - ed è quello che aveva fatto Vinteuil - lanci la propria opera, se vuole che possa percorrere la sua strada, là dove vi sia sufficiente profondità, in pieno e lontano futuro. E, tuttavia, se il non tener conto di quel futuro, che è l'autentica prospettiva dei capolavori, rappresenta l'errore dei cattivi giudici, il tenerne conto costituisce a volte il pericoloso scrupolo dei buoni. Certo, è facile immaginare, per un'illusione analoga a quella che all'orizzonte rende tutte le cose uniformi, che ogni rivoluzione avvenuta sinora nella pittura o nella musica abbia comunque rispettato certe regole mentre quello che ci sta immediatamente davanti, impressionismo, ricerca di dissonanza, impiego esclusivo della gamma cinese, cubismo, futurismo, differirebbe in modo oltraggioso da ciò che è venuto prima. Il fatto è che ciò che è venuto prima lo si considera senza tener presente che una lunga assimilazione l'ha trasformato per noi in materia indubbiamente varia, ma in fin dei conti omogenea, dove Hugo si trova fianco a fianco con Molière. Basti pensare agli sconvolgenti contrasti che presenterebbe ai nostri occhi, se non tenessimo conto del futuro e dei mutamenti ch'esso comporta, un oroscopo della nostra stessa maturità annunciatoci durante la nostra adolescenza. Solo che non tutti gli oroscopi sono veri, ed essere costretti, per un'opera d'arte, a includere nella somma della sua bellezza il fattore del tempo mescola al nostro giudizio qualcosa d'altrettanto aleatorio, e per ciò stesso d'altrettanto destituito di autentico interesse, quanto qualsiasi profezia, il cui mancato avveramento non implicherà in alcun modo la mediocrità intellettuale del profeta, giacché quel che chiama all'esistenza i possibili o da essa li esclude non è necessariamente di competenza del genio; si può essere stati dei geni e non aver creduto all'avvento delle ferrovie o degli aeroplani, o anche, pur essendo grandi psicologi, non aver supposto la doppiezza di un'amante o di un amico di cui persone più mediocri avrebbero previsto i tradimenti.
nga "Alla ricerca del Tempo perduto - All'ombra delle fanciulle in fiore - Intorno a Madame Swann)
E non solo non ci si impadronisce subito delle opere davvero rare, ma all'interno di ciascuna di esse, ed è quanto mi accadde con la Sonata di Vinteuil, le parti che si colgono per prima sono proprio le meno pregiate. E così, il mio errore non era solo di pensare che l'opera non mi riservasse più niente (il che mi indusse a lasciar passare molto tempo senza cercare di ascoltarla) dal momento che Madame Swann me ne aveva proposto la frase più famosa (in questo non ero meno sciocco di chi non spera più di provare stupore davanti a San Marco di Venezia perché qualche fotografia gli ha rilevato la forma delle sue cupole). C'era ben altro: anche quando l'ebbi ascoltata da cima a fondo, la Sonata mi restò quasi del tutto invisibile, come un monumento del quale la distanza o la bruma non lasciano trasparire che esigue porzioni. Di qui la malinconia che accompagna la conoscenza di simili opere, come di tutto ciò che si realizza nel tempo. Quando l'essenza più nascosta della Sonata di Vinteuil mi si manifestò, quel che avevo còlto, preferito a tutta prima, cominciava già, strappato dall'abitudine al controllo della mia sensibilità, a sfuggirmi, ad allontanarsi da me. Non avendo potuto amare che in tempi successivi tutto ciò che la Sonata mi offriva, non la possedetti mai per intero: somigliava alla vita. Ma, meno deludenti di questa, i grandi capolavori non cominciano mai col darci il meglio di sé. Nella Sonata di Vinteuil, le bellezze che si scoprono per prime sono anche quelle di cui ci si stanca più in fretta, e indubbiamente per la stessa ragione, cioè perché sono quelle che meno differiscono da quanto già conoscevamo. Ma quando queste si sono allontanate, ci resta da amare quella certa frase il cui ordine, troppo nuovo per offrire al nostro intelletto altro che confusione, ce l'aveva resa impercettibile e serbata intatta; allora, lei davanti alla quale passavamo ogni giorno senza saperlo e che s'era tenuta in disparte, lei che per il solo potere della sua bellezza era divenuta invisibile e rimasta ignota, viene per ultima a noi. Ma sarà anche l'ultima che non lasceremo. E l'ameremo più a lungo delle altre, perché ci sarà voluto più tempo per amarla. Del resto, il tempo che occorre a un individuo - come occorse a me con quella Sonata - per penetrare un'opera un po' profonda, è il semplice compendio e come il simbolo degli anni, dei secoli a volte, che trascorrono prima che il pubblico possa amare un capolavoro veramente nuovo. E così, per risparmiarsi le incomprensioni della folla, l'uomo di genio si dice che forse, dal momento che i contemporanei mancano del necessario distacco, le opere scritte per la posterità dovrebbero esser lette solo da quest'ultima, come certi dipinti non si possono giudicare bene osservandoli da vicino. Ma, in realtà, ogni vile precauzione per evitare i falsi giudizi è inutile, essi non sono evitabili. A far sì che difficilmente un'opera geniale sia ammirata con sollecitudine, è la circostanza che chi l'ha scritta è straordinario, che pochi gli assomigliano. Ed è proprio la sua opera che, fecondando i rari spiriti capaci di comprenderla, li farà crescere e moltiplicarsi. Sono stati i quartetti di Beethoven (i quartetti n°12, 13, 14 e 15) a far nascere, a infoltire, in cinquant'anni, il pubblico dei quartetti di Beethoven, realizzando in tal modo, come ogni capolavoro, un progresso, se non nel valore degli artisti, almeno nella società degli spiriti, largamente composta oggi di qualcosa ch'era introvabile quando il capolavoro apparve, vale a dire di esseri capaci di amarlo. Quella che noi chiamiamo posterità, è la posterità dell'opera. Bisogna che l'opera (non tenendo conto, per semplificare, dei geni che nello stesso periodo, parallelamente, possono preparare per il futuro un pubblico migliore, di cui non loro ma altri geni godranno il beneficio) si crei da se stessa la propria posterità. Se, dunque, l'opera si tenesse in disparte, non si facesse conoscere che dalla posterità, quest'ultima non sarebbe, nei suoi confronti, la posterità, ma un'assemblea di contemporanei vissuti, semplicemente, cinquant'anni dopo. Bisogna insomma che l'artista - ed è quello che aveva fatto Vinteuil - lanci la propria opera, se vuole che possa percorrere la sua strada, là dove vi sia sufficiente profondità, in pieno e lontano futuro. E, tuttavia, se il non tener conto di quel futuro, che è l'autentica prospettiva dei capolavori, rappresenta l'errore dei cattivi giudici, il tenerne conto costituisce a volte il pericoloso scrupolo dei buoni. Certo, è facile immaginare, per un'illusione analoga a quella che all'orizzonte rende tutte le cose uniformi, che ogni rivoluzione avvenuta sinora nella pittura o nella musica abbia comunque rispettato certe regole mentre quello che ci sta immediatamente davanti, impressionismo, ricerca di dissonanza, impiego esclusivo della gamma cinese, cubismo, futurismo, differirebbe in modo oltraggioso da ciò che è venuto prima. Il fatto è che ciò che è venuto prima lo si considera senza tener presente che una lunga assimilazione l'ha trasformato per noi in materia indubbiamente varia, ma in fin dei conti omogenea, dove Hugo si trova fianco a fianco con Molière. Basti pensare agli sconvolgenti contrasti che presenterebbe ai nostri occhi, se non tenessimo conto del futuro e dei mutamenti ch'esso comporta, un oroscopo della nostra stessa maturità annunciatoci durante la nostra adolescenza. Solo che non tutti gli oroscopi sono veri, ed essere costretti, per un'opera d'arte, a includere nella somma della sua bellezza il fattore del tempo mescola al nostro giudizio qualcosa d'altrettanto aleatorio, e per ciò stesso d'altrettanto destituito di autentico interesse, quanto qualsiasi profezia, il cui mancato avveramento non implicherà in alcun modo la mediocrità intellettuale del profeta, giacché quel che chiama all'esistenza i possibili o da essa li esclude non è necessariamente di competenza del genio; si può essere stati dei geni e non aver creduto all'avvento delle ferrovie o degli aeroplani, o anche, pur essendo grandi psicologi, non aver supposto la doppiezza di un'amante o di un amico di cui persone più mediocri avrebbero previsto i tradimenti.