Re: Lavde cmendurise....
45 - LA FELICITA'...TUTTO STA IN QUEL CHE SI CREDE
Ma è male, dicono, essere ingannati; c'è molto di peggio: non essere ingannati. Sono, infatti, proprio privi di buon senso quanti ripongono la felicità dell'uomo nelle cose stesse. Essa dipende dal nostro modo di vederle. Infatti tale è l'oscurità e varietà delle cose umane che niente si può sapere con chiarezza, come giustamente affermano i miei Accademici, i meno presuntuosi dei filosofi.
Se poi qualcosa si può sapere, spesso abbiamo poco da rallegrarcene. L'animo umano, infine, è fatto in modo tale che la finzione lo domina molto più della verità. Chi ne volesse trovare una prova facilmente accessibile, potrebbe andare in Chiesa a sentir prediche: qui, se il discorso si fa serio, tutti sonnecchiano, sbadigliano, si annoiano. Ma, se l'urlatore di turno (è stato un lapsus, volevo dire l'oratore), come spesso succede, prende le mosse da qualche storiella da vecchierelle, tutti si svegliano, si tirano su, stanno a sentire a bocca aperta. Del pari, se c'è un Santo leggendario e poetico - per esempio San Giorgio, o San Cristoforo, o Santa Barbara - lo vedrete venerare con molto maggiore pietà di San Pietro, e San Paolo, e dello stesso Gesù Cristo. Ma di questo, qui non è il luogo. Costa veramente poco conquistare la felicità illusoria che dicevo! Le cose vere, anche le meno rilevanti, come la grammatica, costano tanta fatica. Un'opinione, invece, costa così poco, e alla nostra felicità giova altrettanto, se non di più. Se, per esempio, uno si ciba di pesce in salamoia andato a male, di cui un altro neppure potrebbe sopportare il puzzo, mentre per lui sa d'ambrosia, di' un po', che cosa mai gl'impedisce di godersela? Al contrario, se a uno lo storione dà la nausea, che razza di piacere ne trarrà? Se una moglie decisamente brutta al marito sembra tale da poter gareggiare con la stessa Venere, non sarà forse come se fosse bella davvero? Se uno contempla ammirato una tavola impiastricciata di rosso e di giallo, persuaso di trovarsi davanti ad un dipinto di Apelle o di Zeusi, non sarà forse più felice di chi ha comprato a caro prezzo un'opera di quegli artisti per poi gustarla forse con minore passione? Conosco un tale che si chiama come me, e che alla sposa novella donò alcune gemme false facendogliele credere, con la parlantina che aveva, non solo assolutamente vere, ma anche rare e di valore inestimabile.
Ditemi un po', che differenza c'era per la fanciulla, visto che quei pezzetti di vetro rallegravano altrettanto i suoi occhi e il suo cuore, se conservava gelosamente presso di sé delle sciocchezzuole di nessun valore come se fossero chissà qual tesoro? Il marito, frattanto, evitava una spesa e godeva dell'illusione della moglie che gli era grata come se avesse ricevuto doni di gran pregio.
Che differenza pensate vi sia fra coloro che nella caverna di Platone contemplano le ombre e le immagini delle varie cose, senza desideri, paghi della propria condizione, e il sapiente che, uscito dalla caverna, vede le cose vere? Se il Micillo di Luciano avesse potuto continuare a sognare in eterno il suo sogno di ricchezza, che motivo avrebbe avuto di desiderare un'altra felicità? La condizione dei folli, perciò, non differisce in nulla da quella dei savi, o, meglio, se in qualcosa differisce, è preferibile. Innanzitutto perché la loro felicità costa ben poco: solo un piccolo inganno di sé.
46 - NESSUN UOMO E' ESENTE DA PAZZIA
E poi perché ne godono insieme con moltissimi, e "non c'è bene di cui si possa godere davvero se non si ha qualcuno con cui dividerlo" (Seneca, "Epistuale morales"). E chi non sa quanto pochi sono i sapienti, se pur qualcuno ve n'è? In tanti secoli i Greci ne contano in tutto sette, e anche di questi, per Ercole, se si andasse a guardare meglio, nessuno, ho paura, risulterebbe sapiente a metà, e forse neppure per un terzo.
Perciò, se dei molti meriti di Bacco giustamente si considera il più importante la capacità di scacciare gli affanni, e anche questo solo finché, appena smaltita la sbornia, gli affanni tornano all'assalto - come dicono, su bianchi destrieri - quanto più completo ed efficace il mio beneficio per cui l'animo, in una ebbrezza perenne, senza nessuna fatica, si riempie di gioia, di piaceri, di esultanza! Né lascio alcun mortale privo del mio dono, mentre i doni degli altri Dèi vanno ora a questo ora a quello.
Non sgorga dappertutto, a scacciare gli affanni, un dolce vino generoso, fecondo di speranze.
A pochi la bellezza, dono di Venere; meno ancora sono quelli a cui tocca l'eloquenza, dono di Mercurio; non molti hanno in sorte, col favore di Ercole, le ricchezze, né il Giove omerico concede a tutti l'imperio. Spesso Marte nega il suo appoggio ad entrambi i contendenti. Parecchi lasciano il tripode di Apollo con la tristezza in cuore. Il figlio di Saturno scaglia spesso i suoi fulmini; a volte Febo coi suoi dardi diffonde la peste. Nettuno ne uccide più di quanti ne salva; per non menzionare cotesti Veiovi, Plutoni, Sventure, Pene, Febbri, e simili, che non sono divinità ma carnefici. Io, la Follia, sono la sola a stringere tutti ugualmente in così generoso abbraccio.
47 - LA PAZZIA SI CONTENTA DI AVER TUTTI GLI UOMINI DALLA SUA
Non voglio preghiere e non mi sdegno per avere offerte espiatorie, se qualche particolare del cerimoniale è stato trascurato. Se, quando tutti gli altri Dèi sono invitati, mi lasciano a casa non permettendomi neanche di annusare il buon odore delle vittime, non ne faccio una tragedia. Quanto agli altri Dèi, invece, sono così suscettibili che quasi meglio sarebbe - senza dubbio sarebbe più prudente - lasciarli perdere piuttosto che venerarli. Come certi uomini, così difficili ed irritabili, che è preferibile non conoscerli affatto piuttosto che averli amici.
Nessuno, dicono, offre sacrifici o innalza templi alla Follia. Di questa ingratitudine, come dicevo, un poco mi stupisco, anche se poi, col buon carattere che mi ritrovo, ci passo sopra. D'altronde onori del genere esulano dai miei desideri. Perché mai dovrei desiderare un pugno di incenso, una focaccia, un becco o un porco, quando gli uomini di tutto il mondo mi tributano un culto che persino dai teologi viene tenuto nel massimo pregio! A meno che non debba mettermi ad invidiare Diana perché riceve sacrifici di sangue umano! Io ritengo di essere venerata col massimo della devozione quando tutti gli uomini, come di fatto succede, mi hanno in cuore e modellano su di me i loro costumi, le loro regole di vita. Una forma di culto che non è frequente neppure fra i cristiani.
Quanti sono, infatti, coloro che accendono alla Vergine, madre di Dio, un candelotto, magari a mezzogiorno, quando proprio non ce n'è bisogno! D'altra parte, quanto pochi cercano d'imitarne la castità, la modestia, l'amore per il regno dei cieli! Mentre è questo alla fine il vero culto, il più gradito agli abitatori del cielo. Inoltre, perché mai dovrei desiderare un tempio, quando l'universo è il mio tempio? e un gran bel tempio, se non erro. Né mi mancano i devoti, se non dove mancano gli uomini. Né sono così sciocca da andare in cerca di statue di pietra dipinte a colori, che spesso nuocciono al nostro culto perché i più ottusi adorano le immagini invece delle divinità, mentre a noi capita quello che di solito succede a quanti sono soppiantati dai loro rappresentanti. Io credo di avere tante statue quanti sono gli uomini che, anche senza volere, mostrano nel volto la mia immagine vivente. Non ho nulla da invidiare agli altri Dèi, se vengono venerati chi in un cantuccio della terra chi in un altro, e solo in giorni determinati, come Febo a Rodi, Venere a Cipro, Giunone ad Argo, Minerva ad Atene, Giove sull'Olimpo, Nettuno a Taranto, Priapo a Lampsaco. A me il mondo intero offre senza sosta vittime ben più pregiate.
48 - FORME DI PAZZIA
Se qualcuno giudica questo mio discorso più baldanzoso che veritiero, andiamo un po' a vedere la vita stessa degli uomini, per mettere in chiaro quanto mi devono, e in che conto mi tengono, tanto i potenti come i poveri diavoli.
Non esamineremo la vita di uomini qualunque, si andrebbe troppo per le lunghe, ma solo quella di personaggi segnalati, da cui sarà facile giudicare gli altri. Che importa infatti parlare del volgo e del popolino che, al di là di ogni discussione, mi appartiene senza eccezioni? Tante, infatti, sono le forme di follia di cui da ogni parte il popolo trabocca, tante ne inventa di giorno in giorno, che per riderne non basterebbero mille Democriti, anche se poi, per quegli stessi Democriti, ci vorrebbe ancora un altro Democrito. E' quasi incredibile quanti motivi di riso, di scherzo, di piacevole svago, i poveracci offrono agli Dèi. Agli Dèi che dedicano le ore antimeridiane, quando ancora non sono ubriachi, a litigiose discussioni e all'ascolto delle preghiere. Ma poi, quando sono ebbri di nettare, e non hanno più voglia di attendere a faccende serie, seduti nella parte più alta del cielo, si chinano a guardare cosa fanno gli uomini. Né c'è spettacolo che gustino di più. Dio immortale! quello sì che è teatro! Che varietà nel tumultuoso agitarsi dei pazzi! Io stessa, infatti, talvolta vado a sedermi nelle file degli Dèi dei poeti. Questo si strugge d'amore per una donnetta, e quanto meno è riamato tanto più ama senza speranza. Quello sposa la dote e non la donna. Quell'altro prostituisce la sposa, mentre un altro ancora, roso dalla gelosia, tiene gli occhi aperti come Argo. Quali spettacolari sciocchezze dice e fa qualcuno in circostanze luttuose, arrivando a pagare dei professionisti perché recitino la commedia del compianto! C'è chi piange sulla tomba della matrigna, e chi spende tutto ciò che può racimolare per impinguarsi il ventre, a rischio, magari, di ridursi in breve a morire di fame. Qualcuno pone in cima ai suoi pensieri il sonno e l'ozio. C'è chi si prodiga con ogni cura per gli affari degli altri mentre trascura i propri, e chi, preso nel giuoco dei debiti, prossimo a fallire, si crede ricco del denaro altrui; un altro pone all'apice della sua felicità morire povero pur di arricchire l'erede. Questi per un guadagno modesto, e per giunta incerto, corre tutti i mari, affidando la vita, che il denaro non ricompra, alle onde e ai venti; quello preferisce cercare di arricchirsi in guerra piuttosto che starsene al sicuro in casa sua. Ci sono di quelli che credono si possa arrivare alla ricchezza senza la minima fatica andando a caccia di vecchi senza eredi; né manca chi, in vista dello stesso risultato, opta per un legame con vecchiette danarose. Gli uni e gli altri offrono agli Dèi che stanno a guardare uno spettacolo oltremodo divertente, quando si fanno abbindolare proprio da coloro che vogliono intrappolare. La razza più stolta e abietta è quella dei mercanti che, pur trattando la più sordida delle faccende e nei modi più sordidi, pur mentendo, spergiurando, rubando, frodando a tutto spiano, si credono da più degli altri perché hanno le dita inanellate d'oro. Né mancano di adularli certi fraticelli che li ammirano e li chiamano apertamente venerabili, senza dubbio perché una piccola parte degli illeciti profitti vada a loro. Altrove puoi vedere dei Pitagorici, a tal segno convinti della comunanza dei beni, che, se trovano qualcosa d'incustodito, tranquillamente se ne appropriano come l'avessero ricevuto in eredità. C'è chi, ricco solo di speranze, sogna la felicità, e già questo sogno, per lui, è la felicità. Taluni si compiacciono di essere creduti ricchi, mentre a casa loro muoiono di fame. Uno si affretta a dilapidare tutto quello che possiede; un altro accumula con mezzi leciti e illeciti. Questo si fa portare candidato perché ambisce a pubbliche cariche, quello è contento di starsene accanto al fuoco. E sono tanti quelli che intentano interminabili cause e che, portatori di opposti interessi, fanno a gara per arricchire il giudice che accorda rinvii, e l'avvocato che è in combutta con la parte avversa. Uno ha la mania di rinnovare il mondo, un altro propende per il grandioso. C'è chi, senza nessuna ragione d'affari, lascia a casa moglie e figli e se ne va a Gerusalemme, a Roma, a San Giacomo di Compostella.
Insomma, se, come una volta Menippo dalla Luna, potessimo contemplare dall'alto gli uomini nel loro agitarsi senza fine, crederemmo di vedere uno sciame di mosche e di zanzare in contrasto fra loro, intente a combattersi, a tendersi tranelli, a rapinarsi a vicenda, a scherzare, a giocare, nell'atto di nascere, di cadere, di morire. Si stenta a credere che razza di terremoti e di tragedie può provocare un animaletto così piccino e destinato a vita così breve. Infatti, di tanto in tanto, un'ondata anche non grave di guerra o di pestilenza ne colpisce e ne distrugge migliaia e migliaia.
49 - I GRAMMATICI
Sarei io stessa un'autentica pazza, e meriterei proprio di far ridere Democrito a più non posso, se continuassi ad elencare tutte le forme di stolta pazzia proprie del volgo. Mi rivolgerò a quelli che fra i mortali vestono l'abito della sapienza e, come si dice, aspirano al famoso ramo d'oro.
Fra loro al primo posto stanno i grammatici, che sarebbero per certo la genìa più calamitosa, più lugubre, più invisa agli Dèi, se non ci fossi io a mitigare, con una dolce forma di follia, i guai di quella infelicissima professione. Su di essi, infatti, non pesano solo le cinque maledizioni di cui parla l'epigramma greco, ma tante, tante di più: sempre affamati, sempre sporchi, se ne stanno nelle loro scuole, e le ho chiamate scuole, ma avrei dovuto dire luoghi dove si lavora come schiavi, camere di tortura; fra turbe di ragazzi invecchiano nella fatica; assordati dagli schiamazzi, imputridiscono nel puzzo e nel sudiciume; tuttavia, per mio beneficio, avviene che si ritengano i primi tra gli uomini. Sono così contenti di sé, quando col volto truce e con la voce minacciosa atterriscono la tremebonda folla degli alunni; quando le suonano a quei disgraziati con sferze, verghe e scudisci, e in tutti i modi incrudeliscono a loro capriccio, a imitazione del famoso asino di Cuma. Intanto, per loro, quel sudiciume è la quintessenza del nitore, quel puzzo sa di maggiorana, quell'infelicissima schiavitù è pari a un regno, a tal punto che rifiuterebbero di scambiare la loro tirannide col potere di Falaride o di Dionigi. Ma anche più felici si sentono per non so quale convinzione di essere dei dotti. Mentre ficcano in testa ai ragazzi madornali sciocchezze, tuttavia, Dio buono, di fronte a chi, Palemone o Donato che sia, non ostentano sprezzante superiorità? E con non so quali trucchi riescono a meraviglia nell'intento di apparire al re sciocche mammine e ai padri scemi pari all'opinione che hanno di sé.
C'è poi un'altra fonte di piacere: quando uno di loro scova in un foglio ammuffito il nome della madre di Anchise, o una paroletta di uso non comune, BUBSEQUA, BOVINATOR o MANTICULATOR, o quando, scavando da qualche parte, tira fuori un frammento di antico sasso che porta un'iscrizione mutila. O Giove, che esplosioni di gioia allora, che trionfi, che elogi! come se avesse messo in ginocchio l'Africa, o espugnato Babilonia! E che diremo di quando vanno sbandierando a tutto spiano i loro insulsissimi versiciattoli, che non mancano peraltro di ammiratori? credono ormai che lo spirito di Virgilio sia penetrato in loro. Ma la scena più divertente si ha quando si scambiano lodi e complimenti, e a vicenda si danno una lisciatina. Se poi uno di loro incappa in un lapsus, e un altro più avveduto per caso se ne accorge, allora sì, per Ercole, che ne viene fuori una tragedia a base di polemiche, di litigi, di ingiurie! Possano tutti i grammatici volgersi contro di me, se mento.
Ho conosciuto una volta un tale, dotto in svariati campi: sapeva di greco, di latino, di matematica, di filosofia, di medicina, e questo a livello superiore. Ormai sessantenne, messo da parte tutto il resto, da oltre vent'anni si tormenta sulla grammatica, ritenendo di poter essere felice se vivrà abbastanza da stabilire con certezza come vadano distinte le otto parti del discorso; finora nessuno, né dei Greci né dei Latini, ci è riuscito pienamente. Di qui quasi un caso di guerra se uno considera congiunzione una locuzione avverbiale. A questo modo, pur essendovi tante grammatiche quanti grammatici, anzi di più se solo il mio amico Aldo Manuzio ne ha pubblicate più di cinque, questo tale non tralascia di leggerne ed esaminarne minuziosamente nessuna, per barbara o goffa che sia nello stile. Guarda infatti con sospetto chiunque faccia in materia un tentativo, sia pure insignificante, attanagliato com'è dalla paura che qualcuno lo privi della gloria, rendendo vane così annose fatiche. Preferite chiamarla follia o stoltezza? A me poco importa, purché siate disposti a riconoscere che, per mio beneficio, l'animale più infelice di tutti può attingere tale una felicità da non volere scambiare la propria sorte neppure con quella dei re persiani.
50 - I POETI
Meno mi devono i poeti, che pure appartengono apertamente alle mie schiere, libera schiatta come sono, secondo il proverbio, tutti presi dall'impegno di sedurre l'orecchio dei pazzi con autentiche sciocchezze e storielle risibili. Fidando in questi mezzi, mirabile a dirsi, promettono immortalità e divina beatitudine a se stessi e anche agli altri. A costoro soprattutto sono legate Filautìa e Kolakìa, che da nessun'altra stirpe mortale ricevono un culto altrettanto schietto e costante. Quanto ai retori, benché prevarichino un poco con la complicità dei filosofi, fanno parte anche loro della nostra confraternita. Molte cose lo dimostrano, ma una in primo luogo: che, a parte le altre sciocchezze, tanto hanno scritto e con tanto impegno a proposito dell'arte di scherzare. E l'autore, chiunque esso sia, della RETORICA AD ERENNIO, annovera la follia tra le varietà di facezie; Quintiliano poi, che in questo campo è di gran lunga il migliore, ci ha dato sul riso un capitolo più lungo dell'ILIADE. Tanto essi valorizzano la follia che spesso quando sono a corto d'argomenti, cercano una scappatoia nel riso. A meno di negare che sia proprio della follia suscitare ad arte pazze risate dicendo cose che appunto, fanno ridere.
Nella stessa schiera rientrano quelli che aspirano a fama immortale pubblicando libri. Mi devono tutti moltissimo, ma in particolare coloro che imbrattano i fogli con autentiche sciocchezze. Gli eruditi, infatti, che scrivono per pochi dotti, e che non rifiutano per giudici né Persio né Lelio, a me non sembrano punto felici, ma piuttosto degni di pietà, perché senza posa si arrovellano a fare giunte, mutamenti, tagli, sostituzioni. Riprendono, limano; chiedono pareri; lavorano a una cosa anche per nove anni, e non sono mai contenti; a così caro prezzo comprano un premio da nulla quale è la lode, e lode di pochissimi, per di più: la pagano con tante veglie, con tanto spreco di sonno - il sonno, la più dolce delle cose! - con tanta fatica, con tanto sacrificio.
Aggiungi il danno della salute, la bellezza che se ne va, il calo della vista, o addirittura la cecità, la povertà, l'invidia degli altri, la rinuncia ai piaceri, la senescenza precoce, la morte prematura; e chi più ne ha, più ne metta. Il sapiente crede che ne valga la pena: mali sì gravi in cambio del plauso di uno o due cisposi. Quanto più felice il delirio dello scrittore mio seguace quando, senza starci punto a pensare, solo col modico spreco di un po' di carta, seguendo l'ispirazione del momento, traduce prontamente in scrittura tutto quanto gli passa per la testa, anche i sogni, sapendo che più sciocche saranno le sciocchezze che scrive, e più troverà consenso nella maggioranza, cioè in tutti gli stolti e ignoranti. Che importa il disprezzo di tre dotti, ammesso che le leggano? e che peso può avere il giudizio di così pochi sapienti, se a contrastarlo c'è una folla così sconfinata? Ma ancora più avveduti si rivelano coloro che pubblicano, spacciandoli per propri, gli scritti altrui e valendosi dell'apparenza trasferiscono sulla propria persona una gloria che è frutto del faticoso impegno d'altri; fidano su questo, che se anche saranno accusati di plagio, tuttavia, per qualche tempo, avranno tratto vantaggio dall'inganno.
Vale la pena di vedere come sono soddisfatti di sé quando la gente li elogia, quando li segna a dito nella folla: "E lui! lo scrittore famoso!"; quando i loro libri stanno in mostra in libreria, quando in cima a ogni pagina si leggono quei tre nomi, soprattutto se stranieri e con un sapore di magia. Ma cosa sono poi, buon Dio, se non dei nomi? E quanto pochi saranno a conoscerli, se si pensa a quant'è grande il mondo; e meno ancora, poi, saranno a lodarli, perché anche gli ignoranti hanno gusti diversi. Che dite degli stessi nomi, non di rado fittizi e tratti dai libri degli antichi? Chi si compiace di chiamarsi Telemaco, chi Steleno o Laerte; chi Policrate e chi Trasimaco, tanto che ormai potremmo benissimo chiamarli camaleonte o zucca, oppure indicare i libri con le lettere dell'alfabeto, secondo l'uso dei filosofi.
Eppure più di tutto diverte vederli, sciocchi e ignoranti come sono, impegnati a scambiare con altri, sciocchi e ignoranti come loro, lettere e versi elogiativi, encomi. In questi scambi di lodi, chi diventa un Alceo e chi un Callimaco; chi è superiore a Cicerone e chi più dotto di Platone. A volte, per accrescere nella gara la loro fama, creano un avversario, e "il pubblico, incerto, non sa quale partito prendere", finché ne escono tutti vittoriosi e lasciano il campo da trionfatori.
I saggi ridono di queste cose come di solenni sciocchezze, e tali sono. Chi lo nega? Ma intanto, per merito mio, quelli se la godono e non scambierebbero i loro trionfi neppure con quelli degli Scipioni. Gli stessi dotti, del resto, mentre ridono divertendosi un mondo e godono della follia altrui, contraggono anch'essi con me un gran debito; né possono negarlo, se non sono proprio degl'ingrati.
51 - I GIURECONSULTI
Fra gli eruditi il primo posto spetta ai giureconsulti, e nessuno più di loro è soddisfatto di sé quando, impegnati in una fatica di Sisifo, formulano leggi a migliaia, non importa a qual proposito, e aggiungendo glosse a glosse, pareri a pareri, fanno in modo da presentare lo studio del diritto come il più difficile fra tutti. Attribuiscono infatti titolo di nobiltà a tutto ciò che costa fatica.
Accanto ai giuristi collochiamo i dialettici e i sofisti, una genìa più loquace dei bronzi di Dodona: uno qualunque di loro potrebbe gareggiare in fatto di chiacchiera con venti donne di prima scelta. Meglio per loro sarebbe, se fossero soltanto chiacchieroni, e non anche litigiosi al punto di polemizzare con estrema tenacia per questioni di lana caprina e da trascurare spesso, nella foga della contesa, i diritti della verità. Pieni di sé come sono, godono ugualmente quando, armati di tre sillogismi, non esitano ad attaccare lite con chiunque, a qualunque proposito. Del resto la loro pertinacia li rende invincibili, anche se il loro avversario è uno Stentore.
52 - I FILOSOFI
E poi ci sono i filosofi, venerandi per barba e mantello: affermano di essere i soli sapienti; tutti gli altri sono soltanto ombre inquiete. Ma com'è bello il loro delirio quando costruiscono mondi innumerevoli; quando misurano, quasi col pollice e il filo, il sole, la luna, le stelle, le sfere; quando rendono ragione dei fulmini, dei venti, delle eclissi e degli altri fenomeni inesplicabili, senza la minima esitazione, come se fossero a parte dei segreti della natura artefice delle cose, come se venissero a noi dal consiglio degli Dèi! La natura, intanto, si fa le grandi risate su di loro e sulle loro ipotesi. A dimostrare che nulla sanno con certezza, basterebbe quel loro polemizzare sulla spiegazione di ogni singolo fenomeno. Loro, pur non sapendo nulla, affermano di sapere tutto; non conoscendo se stessi e non accorgendosi, a volte, della buca o del sasso che hanno sotto il naso, o perché in molti casi ci vedono poco, o perché sono altrove con la testa, sostengono di vedere idee, universali, forme separate, materie prime, quiddità, ecceità, e cose tanto sottili da sfuggire, credo, persino agli occhi di Linceo. Disprezzano in particolare il profano volgo, quando confondono le idee agli ignoranti con triangoli, quadrati, circoli, e figure geometriche siffatte, disposte le une sulle altre a formare una specie di labirinto, e poi con lettere collocate quasi in ordine di battaglia e variamente manovrate. Né mancano, fra loro, quelli che, consultando gli astri, predicono l'avvenire promettendo miracoli che vanno al di là della magia; e, beati loro, trovano anche chi ci crede.