delokalizimi i sektorit te modes ne itali dhe mundesite qe hapen per ne

komino

Valoris scriptorum
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delokalizim - transferimi i nj faze (ose me teper) te prodhimit ne nje vend tjeter (zakonisht me fuqi punetore te lire)
 

komino

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Re: delokalizimi i sektorit te modes ne itali dhe mundesite qe hapen per ne

shkrimi eshte italisht dhe i gjate

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(avash avash)


INDICE


INTRODUZIONE


1. LA DELOCALIZZAZIONE PRODUTTIVA ALL’ESTERO

1.1 I motivi che spiegano il fenomeno di de-localizzazione produttiva all’estero
1.2 La scelta dei paesi e il controllo sulla produzione decentrata
1.3 La dimensione del fenomeno e il contributo delle diverse regioni


2. GLI EFFETTI DEI PROCESSI DI DE-LOCALIZZAZIONE

2.1 Generalità
2.2 Occupazione e salari
2.3 Lo scambio commerciale con i paesi verso cui si de-localizza
2.4 Gli effetti sulle imprese


3. IL CASO VICENZA

3.1 Il processo di de-localizzazione e il mercato del lavoro vicentino

3.1.1 L’andamento dell’occupazione
3.1.2 Un caso di studio sui lavoratori di imprese di abbigliamento che
hanno chiuso l’attività nel 1992

3.2 Un’indagine sul campo

3.2.1 Le imprese finali
3.2.2 Le imprese di sub-fornitura


4. CONCLUSIONI
 

komino

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Re: delokalizimi i sektorit te modes ne itali dhe mundesite qe hapen per ne

1. LA DE-LOCALIZZAZIONE PRODUTTIVA ALL’ESTERO.

1.1 I motivi che spiegano il fenomeno di de-localizzazione produttiva

A partire dagli anni ’90 molte imprese italiane del TAC, accanto alla tradizionale politica di esportazione del prodotto (internazionalizzazione commerciale), hanno iniziato a de-localizzare la produzione all’estero (internazionalizzazione produttiva).
L’attività di produzione internazionale delle imprese va intesa in senso più ampio di quanto normalmente viene considerato in letteratura. La de-localizzazione produttiva, infatti, non avviene solo ad opera di grandi Gruppi che aprono filiali produttive in altri paesi (IDE), ma anche grazie a numerose piccole-medie imprese che utilizzano in modo continuo sub-fornitori esteri. Con il termine de-localizzazione produttiva internazionale quindi si intende il trasferimento della produzione da imprese localizzate sul territorio nazionale ad altre localizzate in altri paesi. Queste ultime possono essere di proprietà di cittadini residenti nel paese che de-localizza o anche di proprietà straniera, ma la progettazione e il marchio appartengono ai committenti nazionali che spesso esercitano sul fornitore un controllo tecnico/organizzativo . Se la produzione venisse acquistata da imprese nazionali su campionario del produttore estero ci troveremmo di fronte invece ad una semplice operazione di trading . Possiamo così definire l’impresa transnazionale come “un’impresa che ha il potere di coordinare e controllare attività in più di un paese anche se non le possiede da un punto di vista proprietario” (Dicken P. 1998).
Secondo un ormai consolidato approccio teorico (Dunning, J. H. 1993) il trasferimento della produzione all’estero sotto controllo delle imprese nazionali avviene in presenza di tre diversi fattori:

§ vantaggi specifici del paese estero;
§ vantaggi specifici dell’impresa nazionale rispetto a quella estera;
§ economie di internalizzazione.

I vantaggi del paese estero sono legati all’abbondanza di manodopera a basso costo, alla dotazione di risorse naturali o alla presenza di importanti mercati di consumo che richiedono una produzione locale (ad esempio per offrire un migliore servizio al consumatore estero o per aggirare dazi doganali, ecc). I vantaggi specifici dell’impresa nazionale dipendono dal possesso di un maggiore know-how tecnico e produttivo, dalla capacità di progettare un prodotto di qualità o dal possesso di un marchio affermato sul mercato. Alcuni fattori di vantaggio specifico possono essere facilmente trasferiti all’estero come nel caso della cessione di brevetti o di marchi. In generale però un trasferimento efficiente del know how avviene in un arco di tempo lungo e obbliga l’impresa nazionale ad uno stretto controllo della produzione de-localizzata (internalizzazione). Tale controllo avviene attraverso processi di integrazione o quasi integrazione verticale che comportano lo spostamento all’estero di personale tecnico italiano . Molte delle competenze di tipo produttivo/organizza-tivo si riproducono infatti attraverso forme di socializzazione che richiedono contiguità fisica (Nonaka 1994). In sostanza, l’ “internalizzazione” si rende necessaria a causa delle imperfezioni del mercato rilevabili nell’accesso alle informazioni e nel trasferimento della tecnologia.
Nell’industria dell’abbigliamento le attività di progettazione e di commercializzazione vengono svolte da imprese (finali) che hanno da tempo delegato in tutto o in parte l’attività produttiva a sub-fornitori. La de-localizzazione all’estero quindi ha comportato nella maggior parte dei casi uno spostamento di commesse dall’Italia ad altro paese. Tuttavia, i sub-fornitori esteri non possiedono le stesse competenze di quelli italiani e questo ha portato le imprese finali del nostro paese ad esercitare sulla produzione de-localizzata un livello di controllo maggiore di quello esercitato in Italia. Tale controllo assume il carattere di verifica del rispetto degli standard produttivi e dei tempi di consegna, ma anche di assistenza e formazione dei lavoratori stranieri . Un sistema organizzativo complesso che ha portato una parte delle imprese a gestire direttamente l’attività produttiva all’estero, acquisendo impianti produttivi o costituendone di nuovi. In questo modo si possono ottenere livelli più elevati di produttività e si riducono i costi transazionali legati per esempio all’incertezza sui tempi di consegna, alla qualità dei prodotti o alla negoziazione del prezzo . Diverse imprese che in Italia facevano ricorso a sub-fornitori hanno così aumentato il grado di integrazione verticale sostituendo relazioni di mercato con relazioni di tipo gerarchico .
Se nessun paese estero presentasse vantaggi specifici la produzione resterebbe nel paese dove le imprese hanno acquisito competenze distintive e i mercati esteri verrebbero serviti attraverso i tradizionali canali di esportazione. Questo è ciò che le imprese italiane del sistema moda hanno continuato a fare fino alla seconda metà degli anni ’80, quando la maggior parte delle lavorazioni veniva ancora realizzata dentro i confini nazionali e talvolta regionali. Nel tempo sono diventati sempre più determinanti gli ampi differenziali salariali esistenti tra l’Italia e i vicini paesi dell’est europeo che, dopo la caduta del muro di Berlino, hanno riconvertito il proprio apparato produttivo iniziando ad offrire servizi di sub-contracting. Al contrario, se le imprese italiane perdessero i vantaggi specifici, l’intero ciclo produttivo compresa la progettazione del prodotto si trasferirebbe ad esempio in Romania e l’Italia da paese esportatore si trasformerebbe in importatore di prodotti finiti destinati a soddisfare i consumi domestici .
Nella Tavola 1 sono riassunte quelle che potremmo definire le diverse tappe di sviluppo che portano un paese da esportatore diventare importatore di prodotti finiti. Più alti sono i vantaggi specifici dell’impresa nazionale rispetto a quella estera, maggiore è la quota di valore aggiunto che tende a restare in Italia e/o maggiore è il livello di controllo sulla produzione de-localizzata.
I fattori che portano a modificare la convenienza a produrre in un’area geografica piuttosto che in un’altra possono manifestarsi in un determinato periodo sia nel paese che trasferisce la produzione (aumento nel costo della manodopera, piena occupazione, vincoli ambientali, ecc.) sia in quello che la ospita (incentivi agli investimenti esteri, riduzione del rischio paese, ecc..) oppure, più in generale, interessare tutti i paesi (diminuzione dei costi del trasporto internazionale, liberalizzazione degli scambi, ecc.) .

Tav. 1 Differenti strategie in relazione all’esistenza di vantaggi specifici
I° caso II° caso III° caso
- Vantaggi delle imprese nazionali SI SI NO
- Vantaggi del paese straniero NO SI SI
▼ ▼ ▼

- Strategie delle imprese nazionali Esportazione di prodotti finiti all’estero De-localizzazione produttivaall’estero sotto controllo del-l’impresa italiana (importazione di semilavorati) Importazione prodotti finiti dall’estero per soddisfare il mercato di consumo interno

Quali sono quindi i vantaggi specifici dei paesi verso cui l’Italia sposta la produzione?
Occorre innanzitutto distinguere i paesi a basso costo del lavoro da quelli che sono invece importanti centri di consumo. Le imprese infatti spostano la produzione all’estero secondo strategie:

§ orientate al mercato (market oriented);
§ orientate al reperimento di fattori produttivi specializzati o a basso costo (supply or cost oriented) .

Nel primo caso le aziende avvicinano la produzione ai principali mercati per servire meglio e più rapidamente i clienti, per ridurre i costi di trasporto, per aggirare le barriere protezionistiche (dazi doganali) e per acquisire informazioni utili ad orientare in modo più efficiente le politiche di marketing (Tavola 2). I primi esperimenti di de-localizzazione intrapresi da Benetton con l’avvio di stabilimenti produttivi in Francia, in Spagna e negli Stati Uniti perseguivano queste ultime finalità. Si tratta di una strategia di de-localizzazione che privilegia per lo più i mercati ricchi o potenzialmente in grado di svilupparsi (come alcune aree della Cina o dell’India) e che produce un effetto export-substitution della produzione nazionale .
Nel secondo caso la de-localizzazione produttiva è spiegata da ragioni di risparmio sul costo del lavoro a cui si aggiungono, in alcune regioni del nord-Italia, motivi legati alla difficoltà a reperire sia manodopera sia aree disponibili per l’attività economica . In questo caso la produzione fatta realizzare nei paesi a basso salario non viene venduta sul mercato locale ma importata in Italia e successivamente esportata nei diversi centri del consumo mondiale .

Tav. 2 Diverse strategie di ri-localizzazione produttiva
Motivi Paesi di destinazione Impatto sui flussi di export
Supply or cost oriented - risparmio sui costi del lavoro; - difficoltà a reperire manodopera ambito domestico;- difficoltà a reperire aree da destinare all’attività produttiva- vicinanza ai mercati delle materie prime;- vincoli ambientali paesi abasso salario no export substitution
Market oriented - vicinanza ai mercati di consumo;- aggiramento delle barriere protezionistiche;- risparmio sui costi di trasporto - riduzione del rischio di variazione dei tassi di cambio paesi ad alto consumo export substitution

La diversa produttività ed efficienza organizzativa esistente tra l’Italia e alcuni paesi dell’est europeo, del nord Africa o del sud est asiatico agisce come elemento di compensazione solo parziale degli ampi differenziali salariali. Ciò è vero soprattutto per le industrie dell’abbigliamento e delle calzature. Il tessile, che presenta una tecnologia diversa e meno labour-intensive, ha sperimentato anche negli ultimi anni innovazioni di processo con costanti aumenti di produttività , il che ha reso meno impellente la necessità di contenere il costo del lavoro per mantenere competitività e redditività. Naturalmente anche l’industria tessile risente della forte concorrenza esercitata dai paesi a basso salario e negli ultimi 10 anni le importazioni di filati e tessuti provenienti da questi paesi sono aumentate in misura straordinaria. Tuttavia, la concorrenza internazionale non ha prodotto fenomeni altrettanto estesi di de-localizzazione produttiva da parte delle imprese di questo settore perché su molti prodotti standardizzati i vantaggi specifici dei produttori italiani non sono determinanti e non gioca a favore, come nel caso dell’abbigliamento, l’esistenza di un marchio riconosciuto dal consumatore . Per questo motivo l’importazione da parte
delle imprese italiane di prodotti tessili sono da considerarsi in alcuni casi semplici attività di trading. Gli acquisti cioè avvengono attraverso semplici transazioni di


Schema 1 – Determinanti e modalità dell’internazionalizzazione produttiva (P. Dicken)



mercato e spesso su produzione realizzata per magazzino . D’altro canto, nel tessile l’aspetto tecnico-produttivo è complesso e richiede un controllo più stretto su tutte le fasi di produzione. Un’impresa di questo settore che decida di sfruttare i vantaggi specifici del paese estero è quindi portata ad utilizzare la strategia dell’investimento diretto rispetto a quella del ricorso al sub-contracting internazionale.
Nello schema 1 vengono riassunte le diverse modalità di internazionalizzazione produttiva utilizzate dalle imprese. Esse possono essere riassunte in:

§ alleanze strategiche con un impresa estera (joint-venture, cessione di licenze);
§ ricorso a sub-fornitori indipendenti per l’acquisto di prodotti su progettazione dell’impresa committente (di cui un caso particolare è il TPP);
§ investimenti diretti all’estero (acquisizione o creazione ex novo di imprese).

Ognuna di queste modalità di internazionalizzazione comporta per l’impresa che attua tale strategia differenti gradi di complessità relazionale/organizzativa e differenti livelli di rischio. La forma più leggera di internazionalizzazione è la cessione, dietro pagamento di royalties, delle licenze di produzione. In questo caso il controllo sulla produzione estera è molto limitato ed è difficile parlare di vero e proprio fenomeno di de-localizzazione produttiva.
Nei casi di joint-venture patrimoniali e soprattutto di pieno controllo proprietario delle unità produttive localizzate all’estero l’impresa che de-localizza deve affrontare oltre ai costi organizzativi anche le spese per acquistare l’attrezzatura ed il macchinario necessario all’attività produttiva o l’esborso finanziario per partecipare al capitale dell’impresa parzialmente o totalmente acquisita. In questo caso il rischio è di tipo patrimoniale.
Il rapporto di sub-fornitura richiede un grado di interazione molto più elevato del semplice acquisto commerciale: il committente deve infatti fornire il disegno del prodotto, controllare la qualità della produzione ed il rispetto dei tempi di consegna e talvolta inviare la materia prima in conto-lavorazione (TPP) . Non esiste in questo caso un vero e proprio rischio patrimoniale legato ad investimenti finalizzati a costituire o acquisire una impresa, ma i costi organizzativi sono comunque elevati .
Come già osservato i prodotti fatti realizzare all’estero vengono importati in Italia e da qui venduti sui mercati nazionali ed internazionali. Alla base della (ancora) scarsa rilevanza dei flussi di esportazione “estero-su-estero” c’è innanzitutto il fatto che ad essere de-localizzate sono alcune fasi intermedie della lavorazione, mentre le fasi finali (tintoria, lavaggio e controllo qualità) sono svolte nel nostro paese. Inoltre, i paesi verso cui si de-localizza hanno una diversa specializzazione produttiva e questo costringe l’impresa finale a concentrare, prima della spedizione ai clienti, tutti i prodotti finiti in un unico luogo. Ogni consegna al negozio comprende infatti prodotti diversi tra loro e può essere ripetuta più volte durante una stessa stagione di vendita. La logistica è diventata quindi una delle chiavi di successo delle imprese che devono essere in grado di rispettare tempi di consegna sempre più corti. Se l’intera filiera produttiva venisse trasferita in un altro paese le imprese nazionali potrebbero costituire all’estero una piattaforma logistica per servire i mercati di esportazione facendovi affluire le diverse produzioni de-localizzate . La Romania è il paese che potrebbe in futuro acquisire le funzioni logistiche oggi svolte in Italia e governare i flussi di importazione ed esportazione tra i diversi mercati internazionali.

1.2 La scelta dei paesi e il controllo sulla produzione decentrata

Nei vicini paesi dell’est europeo e del nord Africa è possibile inviare la materia prima e realizzare anche solo alcune delle fasi di lavorazione del prodotto (importazione di semilavorati), mentre in paesi più lontani, come Cina e India, occorre acquistare tessuti locali e tutto il ciclo produttivo viene delegato ad un singolo produttore (acquisto di prodotti finiti). Poiché anche le competenze tecnico-produttive della manodopera nei diversi paesi non sono le stesse, le fonti di approvvigionamento delle imprese cambiano a seconda del tipo di prodotto e dei tempi di programmazione richiesti in produzione. La maglieria, per esempio, si realizza in Portogallo o nelle Isole Mauritius, mentre le lavorazioni su tessuto si fanno nei paesi dell’est, la seta e le T-shirt e i capi sportivi si realizzano in Cina o in India, i prodotti tessili in Turchia.
Le produzioni decentrate in paesi lontani riguardano prodotti meno complessi, realizzati su serie lunghe e programmati con largo anticipo. Tendono infatti a rimanere (ancora) all’interno dei confini nazionali o regionali le produzioni più qualificate, le fasi più capital-intensive come la tessitura in maglia o il taglio automatizzato e quelle a più alto valore aggiunto come la progettazione, il marketing e la logistica che richiedono maggiori competenze e più elevati investimenti. Le imprese di abbigliamento e di calzature tendono a distinguere:

§ gli acquisti di prodotti finiti su materia prima acquistata dal fornitore;
§ le lavorazioni esterne fatte realizzare su filati o tessuti inviati in conto lavorazione (TPP).

Le imprese indicano queste due attività rispettivamente con il termine “semi-commercializzato” e “industrializzato”. La progettazione in ambedue i casi appartiene all’impresa committente, ma a cambiare non è solo la titolarità della materia prima utilizzata, ma anche il grado di complessità relazionale tra le imprese. Nel caso di acquisto del prodotto finito l’impresa delega le funzioni di controllo e approvvigionamento della materia prima al fornitore, ma questo obbliga il committente ad anticipare gli ordini azzardando previsioni che potrebbero non rivelarsi corrette . Non ci sono costi organizzativi elevati, ma il prezzo dei capi è ovviamente maggiore e aumenta anche il rischio dell’invenduto. Nel secondo caso, invece, l’azienda deve farsi carico dei problemi di acquisto e spedizione della materia prima e degli accessori e deve seguire le diverse fasi di avanzamento del prodotto. I vantaggi dipendono da un maggior rispetto dello standard qualitativo, da un utilizzo di materie prime di origine italiana, una maggiore flessibilità e una programmazione meno anticipata. Questa forma maggiormente assistita di de-localizzazione riguarda pertanto i prodotti più complessi, quelli sui quali l’azienda detiene una forte competenza e quelli che utilizzano materiali più pregiati.

Tav. 4 - Differenti sistemi di organizzazione nelle relazioni di sub-fornitura di imprese di abbigliamento e calzature
“Industrializzato” “Semi-commercializzato”

Controllo Tutto il ciclo produttivo Fase finale
Materie prime Fornite in conto lavorazione e di qualità più pregiata Acquistate dal fornitore di minore qualità
Programmazione Tempi meno anticipati Tempi più anticipati
Lead time Medio Lungo
Flessibilità Più elevata Meno elevata
Costi organizzativi Più alti Meno alti
Costo delle lavorazioni Meno elevato – Calcolato a minuto Più elevato – Calcolato a capo
Progettazione Specifiche tecniche Indicazioni stilistiche - bozzetti
Paesi di approvvigionamento Italia – Nord Africa – Est Europeo Sud est asiatico – Cina - India


Generalmente le imprese di maggiore dimensione e dotate di una più ampia gamma produttiva tendono ad avere un mix equilibrato nell’approvvigionamento dai diversi paesi anche per diversificare il rischio di mancate o ritardate consegne.
Alla data del 2001 i principali fornitori dell’Italia sono rappresentati da Romania, Cina e Tunisia che da soli coprono la metà delle importazioni di abbigliamento e di calzature e un quarto di quelle tessili provenienti dai paesi a basso salario.

Tav. 3 I principali paesi di importazione a basso salario per i prodotti del TAC italiano (valori in milioni di euro) (2001)
Abb. Tessile Calzature Totale Abb. Tessile Calzature Totale
ml ml ml ml % % % %

Romania 1209 61 858 2128 21,7 2,2 35,2 19,7
Cina 1012 544 217 1773 18,1 19,6 8,9 16,4
Tunisia 684 70 185 939 12,3 2,5 7,6 8,7
India 283 291 110 684 5,1 10,5 4,5 6,3
Turchia 250 363 2 615 4,5 13,0 0,1 5,7
Ungheria 235 117 92 444 4,2 4,2 3,8 4,1
Bulgaria 137 41 148 326 2,5 1,5 6,1 3,0
Croazia 196 30 68 294 3,5 1,1 2,8 2,7
Indonesia 109 102 61 272 2,0 3,7 2,5 2,5
Bangadesh 224 5 3 232 4,0 0,2 0,1 2,1
Vietnam 50 10 171 231 0,9 0,4 7,0 2,1
Primi 11 paesi 4389 1634 1915 7938 78,7 58,7 78,5 73,5

Totale paesi a basso salario 5580 2782 2438 10799 100 100 100 100
Misurato in percentuale sulle importazioni provenienti dai paesi a basso salario
Fonte: ISTAT

Se consideriamo le importazioni dai paesi ad alto salario (trading) i fornitori più importanti (sempre dopo Romania e Cina) sono Germania e Francia, paesi che nel tempo hanno fortemente ridotto il loro peso sul totale importato.
Nell’arco di dieci anni è cresciuto fortemente il ricorso ad un approvvigionamento di tipo “industrializzato” orientato prevalentemente verso i paesi dell’est europeo . All’inizio degli anni ’90 Ungheria e Slovenia erano i principali destinatari dei flussi di decentramento produttivo dall’Italia e dal Veneto. Si trattava dei paesi più vicini e in grado di garantire una offerta adeguata di infrastrutture e di personale qualificato (Crestanello, Dalla Libera 1995). Successivamente le imprese hanno iniziato a privilegiare paesi con costo del lavoro più basso come Romania, Polonia e Bielorussia. In Asia si è riprodotto lo stesso fenomeno, da paesi tradizionalmente specializzati nel T-A come Hong-Kong o Taiwan la produzione si è spostata in Tailandia e in Vietnam. Questo processo di ri-localizzazione produttiva “estero su estero” non ha interessato solo i nuovi investimenti, ma ha anche provocato dismissioni di unità produttive da parte di imprenditori che avevano già trasferito la produzione fuori dai confini nazionali nei primi anni ’90.

1.3 La dimensione del fenomeno e il contributo delle diverse regioni

Per misurare il fenomeno del decentramento produttivo internazionale vengono di solito utilizzati i dati relativi agli investimenti diretti all’estero (IDE) e quelli sul traffico di perfezionamento passivo (TPP). Ambedue queste fonti però, come già osservato, colgono solo una parte del fenomeno: gli IDE rappresentano uno dei mode of entry delle imprese sui mercati internazionali, mentre il TPP considera esclusivamente il valore delle lavorazioni fatte realizzare all’estero su materia prima esportata in temporanea dal committente nazionale . Tutte le importazioni che riguardano prodotti realizzati su materie prime non inviate dall’Italia in conto lavorazione, bensì acquistate dal fornitore, non vengono considerate (semi-commercializzato). In alcuni casi le statistiche sugli investimenti diretti all’estero sono ben lontane dal cogliere le reali dimensioni del fenomeno . In Romania, per esempio, l’Italia figura solo al quarto posto tra i paesi investitori, avendo realizzato in quel paese tra il 1990 e il 2000 investimenti per 350 milioni di dollari, pari al 7,5% del totale, una quota che è metà di quella olandese . Ciononostante il nostro paese rappresenta il primo partner commerciale della Romania, assorbendo il 22% delle sue esportazioni e fornendo il 17% delle importazioni. Il che dimostra come la via italiana alla de-localizzazione presenti peculiarità diverse da quelle di altri paesi fondandosi sulla presenza di PMI che svolgono operazioni di piccolo investimento in settori tradizionali e/o intrecciano relazioni produttive di sub-contracting con partner stranieri.
Un modo per rappresentare il fenomeno della de-localizzazione nelle sue diverse articolazioni consiste nel considerare tutte le importazioni di semilavorati e di prodotti finiti provenienti dai paesi a basso salario . Naturalmente, le produzioni fatte realizzare da imprese italiane all’estero e vendute direttamente sui mercati degli altri paesi senza transitare per l’Italia, non vengono rilevate. In realtà, ancora oggi quasi tutti i prodotti realizzati all’estero vengono (ancora) importati in Italia per essere sottoposti ad ulteriori fasi di finitura e controllo e, anche a causa dell’ampia varietà produttiva, per essere poi spediti in combinazione con altri al cliente finale.
La distinzione tra: 1) prodotti finiti acquistati su campionario di altre imprese per essere commercializzati in Italia (trading) e 2) prodotti acquistati per essere successivamente trasformati e venduti (“semi-commercializzato” e “industrializzato”) non viene rilevata dalle fonti statistiche ufficiali.
Tuttavia, basandoci su alcuni descrizioni merceologiche assai particolareggiate possiamo ritenere che le importazioni provenienti dai paesi a basso salario siano una buona approssimazione della produzione de-localizzata .

Tav. 5 - Importazioni di semilavorati e prodotti finiti dei settori TAC per tipo di paesi di provenienza (1991-2001) (in milioni di euro e in percentuale)
1991 2001 1991-2001
ad alto *salario a basso**salario ad alto *salario a basso **salario ad alto* salario a basso**salario
(mil) (mil) (mil) (mil) % %

Abbigliamento 1.328 1.076 2.179 5.580 64,0 418,4
Tessile 2.476 1.028 3.122 2.782 26,1 170,8
Calzature 282 392 619 2.438 119,1 521,3
Totale 4.087 2.496 5.919 10.799 44,9 332,6

Comprendono per lo più acquisti: * di prodotti finiti su progettazione del venditore (trading); ** acquisto di semilavorati e prodotti finiti su disegno e controllo del compratore con o senza invio della materia in conto lavorazione (decentramento produttivo internazionale)
Fonte: ISTAT

Nel 1991 le importazioni di prodotti del settore TAC nazionale ammontavano a 5,9 miliardi di euro di cui solo un terzo proveniente dai paesi a basso salario, nel 2001 il valore dell’import raggiunge i 16 miliardi di euro e la quota di questi paesi arriva a rappresentare i 2/3 del totale (Tav. 5). In un decennio, quindi, le importazioni dai paesi a basso salario aumentano di tre volte, mentre gli acquisti dai paesi avanzati crescono del 45%. Ad aumentare in misura più modesta sono le importazioni dei prodotti tessili che nel 1991 venivano importati per un valore simile a quello dei prodotti calzaturieri e di abbigliamento ed oggi rappresentano la metà del totale di tutti gli acquisti esteri del sistema moda. E’ evidente che l’importazione di capi di abbigliamento con materia prima acquistata in loco dal fornitore estero, tende a “spiazzare” le esportazioni italiane di tessuto e di filato.
Con i processi di de-localizzazione produttiva nei paesi a basso salario i flussi di merce seguono percorsi più complicati e riguardano prodotti realizzati a diversi stadi di lavorazione. Mentre ad importare sono imprese di produzione, ad esportare la materia prima in conto lavorazione sono le stesse imprese che ricorrono alla sub-fornitura estera (Tab.6) . Ad esempio, un produttore nazionale di abbigliamento può importare il tessuto dalla Turchia, spedirlo per la confezione in Romania, realizzare le fasi finali di lavaggio e stiratura in Italia e, infine, vendere il capo finito negli Stati Uniti. Questo processo di scomposizione della catena del valore aggiunto a livello internazionale comporta la registrazione in Italia di una doppia importazione (dalla Turchia e dalla Romania) ed esportazione (verso la Romania e gli Usa) interamente imputabile all’attività di una impresa di abbigliamento italiana.

Tav. 6 - Settori acquirenti per tipo di prodotto acquistato e venduto all’estero

Importazioni Esportazioni
Industrie import/export da paesi a basso salario da paesi ad alto salario verso paesi a basso salario Verso paesi ad alto salario

a) tessili - semilavorati e prodotti finiti tessili (filati greggi) - prodotti finiti tessili (filati sintetici) - prodotti finiti tessili (filati e tessuti) * - prodotti finiti tessili (filati e tessuti) *
b) abbigliamento - semilavorati e capi finiti di abbigliamento * - prodotti finiti tessili - prodotti finiti tessili (tessuti) - semilavorati di abbigliamento * - prodotti finiti tessili (tessuti) - capi finiti di abbigliamento *
c) calzature - semilavorati e prodotti finiti calzaturieri * - prodotti finiti calzaturieri * - pelli conciate e semilavorati di calzatura - prodotti finiti calzaturieri *
d) commerciali - capi finiti di abbigliamento e calzature - capi finiti di abbigliamento e calzature
* prodotti finiti su progettazione delle imprese committenti nazionali

Per le produzioni di filati e tessuti il discorso è più complesso. Per questi prodotti l’attività di importazione viene svolta sia dalle imprese tessili sia da quelle dell’abbigliamento. Quest’ultime comprano direttamene il tessuto su campionario del produttore e quindi parte delle importazioni tessili dai paesi a basso salario non sono configurabili come de-localizzazione produttiva, ma come diversificazione internazionale delle fonti di approvvigionamento. Inoltre, ci sono anche imprese tessili che comprano dall’estero prodotti standardizzati (filati) senza esercitare sul produttore alcuna forma di controllo (trading) . I dati di importazione dei prodotti tessili riportati nella tabella precedente vanno quindi letti con cautela poiché questi acquisti non sono sempre imputabili a fenomeni di de-localizzazione produttiva.
I processi di internazionalizzazione produttiva del Sistema Moda italiano interessano in particolare due regioni: Veneto e Lombardia. La prima contribuisce alle importazioni nazionali di abbigliamento e calzature rispettivamente per il 31% e per il 40%, la seconda concorre alle importazioni tessili italiane per il 41% (Tav.7). Nell’arco di un decennio il Veneto ha aumentato in modo considerevole le quote di importazione dai paesi a basso salario superando la Lombardia e distanziando altre regioni come Toscana e Piemonte che nel 1991 presentavano all’incirca lo stesso valore.
Il Veneto appare quindi la regione che ha intrapreso in modo più deciso la strada dell’internazionalizzazione produttiva, soprattutto rispetto all’Emilia Romagna che per prima ha iniziato a spostare la produzione fuori dai confini regionali. Nel 1993 secondo i dati dell’Osservatorio nazionale sul T-A l’Emilia Romagna decentrava il 42% delle lavorazioni esterne di abbigliamento in altre regioni di Italia, l’11% all’estero e solo il 47% veniva affidato a sub-fornitori localizzati nella stessa Regione. Il Veneto, invece, pur decentrando all’estero in misura superiore all’Emilia (19%), ricorreva a sub-fornitori della propria regione in misura notevolmente superiore (69%) . In sostanza, mentre le imprese emiliane hanno iniziato precocemente a cercare manodopera a basso costo nelle regioni del Mezzogiorno, quelle venete, pur legate fortemente alla struttura produttiva locale, erano presenti nei paesi dell’est europeo sin dagli inizi degli anni ‘90.

Tav. 7 - Contributo delle principali regioni alle importazioni del TAC nazionale provenienti dai paesi a basso salario (2001- valori percentuali)
Importazioni Importazioni
2001 1991
Abb. Tessile Calzature Totale Abb. Tessile Calzature Totale

% % % % % % % %
Veneto 30,6 13,8 40,3 28,4 14,5 4,9 33,6 13,6
Lombardia 26,3 41,2 10,1 26,5 28,8 56,6 18,7 38,7
Toscana 9,5 13,1 11,9 11,0 13,2 11,7 9,1 11,9
Piemonte 7,9 12,0 7,1 8,8 14,1 7,1 10,6 10,7
Emilia Romagna 8,4 3,8 3,1 6,0 12,1 4,6 7,5 8,3
Marche 2,4 0,5 13,5 4,4 1,2 0,5 4,8 1,5
Somma prime 6 regioni 85,1 84,4 86,0 85,1 83,9 85,5 84,3 84,6
Italia 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0

Fonte ISTAT

Restringendo la maglia territoriale troviamo che le tre province che de-localizzano maggiormente la produzione all’estero sono venete. Treviso, Verona e Vicenza realizzano complessivamente il 34% delle importazioni nazionali di calzature, il 24% di quelle di abbigliamento e l’11% di quelle tessili (Tav. 8). Il valore delle importazioni per addetto costituisce un indicatore, seppur approssimato, del grado di internazionalizzazione produttiva. Anche in questo caso le province venete si collocano ai primi posti nella graduatoria nazionale : Treviso con una importazione per addetto di prodotti del TAC pari a 34 mila euro, Verona con 32 mila e Vicenza con 18 mila. Province internazionalizzate sono anche Bergamo, Padova, Firenze e Napoli; altre come Prato, Biella e Como (i tre principali distretti tessili italiani), pur importando quote rilevanti di semilavorati e prodotti finiti , lo sono in misura assai inferiore.
Per quali motivi le imprese venete risultano più internazionalizzate rispetto all’Emilia Romagna e alle Marche, regioni altrettanto specializzate nel settore abbigliamento e calzature? I motivi dipendono solo in parte dalla relativa vicinanza delle imprese venete ai mercati dell’est europeo. La distanza può forse rappresentare uno svantaggio relativo per le imprese delle Marche ma non per quelle dell’Emilia, le cui province di Modena e Reggio (specializzate nel settore abbigliamento) distano

Tav. 8 - Importazioni dai paesi a basso salario in alcune province specializzate nei settori del T-A-C (quote percentuali e valori assoluti in rapporto agli addetti)

Importazioni (quote percentuali) Importazioni per addetto (migliaia di euro) *
Province Abb. Tessile Calzature TAC Abb. Tessile Calzature TAC

Treviso 13,2 2,9 16,4 11,3 38,5 13,8 38,3 34,3
Verona 3,7 1,8 16,1 6,0 20,3 n.s 50,1 31,6
Vicenza 6,6 6,7 1,2 5,4 17,3 18,1 n.s. 17,8
Bergamo 4,8 8,8 0,1 4,8 18,3 13,8 n.s 15,8
Padova 3,6 1,2 5,8 3,4 10,3 8,3 34,2 13,8
Firenze 3,9 1,8 3 3,2 15,6 9,5 9,6 12,7
Prato 1,3 8,6 0,1 2,9 9,4 7,8 n.s 8,2
Napoli 2,4 5,7 0,6 2,9 11,3 n.s 1,7 14,7
Brescia 2,3 4,2 2 2,7 6,5 14,9 11,8 9,3
Como 1,9 5,9 0,2 2,5 17,9 7,4 n.s. 9,7
Varese 2,9 3,8 0,2 2,5 10,0 6,1 n.s. 7,9
Biella 1,2 5,6 1 2,3 24,0 6,7 n.s 9,4
Ascoli Piceno 0,5 0,1 7,7 2,0 7,3 n.s 7,4 7,3
Totale 13 48,3 57,1 54,4 51,9 16,2 10,7 18,8 14,5

Totale Italia 100 100 100 100 12,3 11,6 15,2 100

* Le importazioni si riferiscono al 2001 mentre l’occupazione è quella del Censimento 1996; n.s. = valore non significativo perché c’è una bassa specializzazione settoriale;
Fonte: ISTAT

solo 100 km dalla più vicina città veneta. Sicuramente il tipo e la qualità del prodotto realizzato hanno giocato un ruolo più rilevante. In generale, una maggiore specializzazione verso produzioni femminili di tipo fashion e/o di qualità elevata rendono meno conveniente un decentramento produttivo in area lontana. Rispetto all’abbigliamento maschile, quello femminile si presta poco ad essere trasferito all’estero, sia per la numerosità e la variabilità dei modelli presenti in campionario (che tendono a ridurre i lotti produttivi) sia per la minore programmabilità della produzione. In Veneto la quota di abbigliamento femminile è inferiore a quella dell’Emilia e prevale un prodotto di tipo informale assai più standardizzato come il jeans . Per l’industria delle calzature vale lo stesso discorso. A Verona si producono calzature da uomo in pelle di medio-bassa qualità, mentre nelle Marche, ad Ascoli Piceno, prevale una calzatura da donna in pelle di maggior pregio la cui produzione tende a rimanere ancora oggi dentro i confini regionali. Anche nel distretto veneto della Riviera del Brenta dove si produce una scarpa da donna di elevata qualità le imprese hanno una bassa propensione a de-localizzare. Treviso è un caso a sé perché realizza una calzatura sportiva spesso su modello standardizzato la cui produzione da sempre viene decentrata nel sud est asiatico (Cina e Vietnam). Quanto detto vale anche per l’abbigliamento maschile prodotto in Veneto che quando è di alta qualità (capospalla Pal Zileri e Nervesa Moda Uomo) non viene de-localizzato. Una produzione più spostata su prodotti standardizzati a serie lunga e quindi il motivo più convincente nello spiegare un maggior ricorso alla de-localizzazione verso altri paesi.
Altri motivi vanno però considerati. Nelle Marche, il principale distretto calzaturiero italiano, la minore propensione a de-localizzare dipende anche dalla forte frantumazione del tessuto produttivo locale e dalla maggiore (relativamente ad alcune province venete) disponibilità di manodopera. Il confronto tra il Veneto e l’Emilia pone problemi più complessi per ragioni di vicinanza geografica e anche di similarità nelle condizioni del mercato del lavoro delle due regioni. Come già osservato l’Emilia ha de-localizzato fortemente nel mezzogiorno, mentre il Veneto ha privilegiato principalmente i paesi dell’est europeo. Le ragioni legate al differente tipo di prodotto naturalmente sono importanti in quanto i sub-fornitori del mezzogiorno in confronto a quelli dell’est europeo hanno maggiori competenze tecnico-produttive e maggiori capacità di lavorare in modo flessibile su produzioni a serie corta (caratterizzanti la produzione emiliana). Anche l’essere partiti prima (dell’apertura dei mercati dell’est europeo) nel decentrare fuori dai confini regionali, come ha fatto l’Emilia, spiega il maggior radicamento di questa regione nel Mezzogiorno. Un ulteriore motivo può essere legato al diverso atteggiamento nei confronti delle imprese del sud da parte degli imprenditori veneti, che sembrerebbe almeno in parte frutto di pregiudizi e stereotipi. Da una recente ricerca (Deidda D, 2002) emerge come gli imprenditori del Nord-Est rilevino tra i principali fattori che frenano gli investimenti nel Mezzogiorno la presenza di situazioni ambientali pericolose e la diffusione presso i lavoratori del sud di un atteggiamento negativo verso il lavoro. Sotto questo aspetto gli stessi imprenditori forniscono dell’est europeo, assunto come modello di confronto, un quadro più favorevole di quello delineato per il Mezzogiorno . Naturalmente qualcuno potrebbe obiettare che sono gli imprenditori emiliani a sottovalutare i vantaggi del trasferire la produzione nei paesi dell’est europeo, ma resta il fatto che queste diverse valutazioni hanno sicuramente influenzato le direttrici degli investimenti regionali.
Va infine considerato che la presenza di un effetto imitazione porta ad amplificare le strategie e i comportamenti delle imprese pioniere. Gli imprenditori tendono ad imitare le imprese che per similarità produttiva e per vicinanza geografica rappresentano dei modelli di riferimento. E così la strada all’internazionalizzazione aperta da alcune grandi imprese venete, come Stefanel e Geox a Treviso o Marzotto e Belfe a Vicenza, è stata poi percorsa da altri imprenditori che si sono avvalsi delle informazioni e della consulenza di tecnici e operatori locali che hanno maturato esperienza nell’assistere la produzione all’estero .
 

komino

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Re: delokalizimi i sektorit te modes ne itali dhe mundesite qe hapen per ne

besoj se me kaq u morem vesh


kjo me poshte eshte nje oferte bshkepunimi tip e nje firme qe kerkon te prodhoje jashte


Capitale sociale (in EURO): n.d.
Anno inizio attività: 1974

Rappresentanti legali: Vincenzo Benvenga
Referenti commesse: Michele Benvenga

Fatturato (in EURO)
1999:
2000:
2001: n.d.
n.d.
n.d. .

Fatturato all'export (ultimo anno disponibile): --%

Addetti (al 31 dicembre)
1999:
2000:
2001: 22
21
n.d. .
Prodotti/servizi realizzati dall'Azienda
- Camicie di qualità medio/fine da uomo, donna e bambino

Forme di collaborazione alle quali l'Azienda è interessata
- Realizzare le seguenti tipologie di prodotti/servizi per conto di terzi:
P61150 - Camicie per uomo
P61270 - Camicie per donna
P61370 - Camicie, camicette per bambini
Descrizione dei prodotti/servizi realizzati per conto terzi:
Camicie uomo, donna e bambino, con caratteristiche di qualità medio/fine.
Realizzazione di semilavorati (colli e polsi)
- Svolgere le seguenti lavorazioni/attività per conto di terzi:
L51300 - Disegno di indumenti: disegno, messa in carta
L52600 - Preparazione alla fabbricazione di indumenti: formare il materasso, stendere il tessuto
L53100 - Fabbricazione di indumenti: taglio di lunghezze da rotoli di tessuto
L53200 - Fabbricazione di indumenti: taglio di tessuti stesi

- Affidare a terzi lo svolgimento delle seguenti lavorazioni/attività:
L54200 - Operazioni per l'assemblaggio degli indumenti
Descrizione delle lavorazioni/attività affidate a terzi e delle specifiche tecniche:
L'Azienda invia i singoli accessori con annessa scheda di lavorazione ed il commissionario provvede alla realizzazione della camicia
- Sviluppare insediamenti produttivi in collaborazione con partners
Azienda interessata a sviluppare insediamenti produttivi in collaborazione con partners, per attività di produzione camicie (assemblaggio delle singole componenti)
- Attivare nuovi canali di vendita/distribuzione dei propri prodotti
Azienda interessata a collaborazioni commerciali con aziende o anche con agenti e rappresentanti

Attività di progettazione
L'Azienda svolge attività di progettazione, anche per conto terzi
Persone impegnate nella progettazione: n° 2

Prove e analisi sul prodotto
L'Azienda non effettua prove e analisi sul prodotto

Altre attività / servizi svolti dall'Azienda
Non specificati

Impianti, macchinari, attrezzature, sistemi di automazione, tecnologie impiegati
- Centro progettazione modelli e stampa su carta
- Stenditore semiautomatico
- Macchine lineari
- Tagliacuci
- Braccio rovescio
- Asolatrici
- Attaccabottoni
- Stiro automatico
- Centro elaborazione dati ed etichettatrice con codice a barre
- Pressa rotativa
- Pressa con piatto

Principali materiali impiegati e/o lavorati
- Tessuti cotone e misti

Principali settori di sbocco
- Abbigliamento

Principali clienti
- Ittierre Spa
- Simonetta Spa

Referenze bancarie
- Banca di Roma
- Credito Italiano

Sistema di qualità e certificazione
L'Azienda non è certificata
Adotta un manuale della qualità
Applica controlli di qualità su:
- materiali in entrata
- lavorazioni
- prodotti/servizi
Tipo di certificazione fornita sui prodotti:
- non specificato

Annotazioni varie
Nessuna


mjafton pak inisiative nga ana jone

shpenzimet fillestare nuk i kalojne 100,000 euro
 

komino

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Re: delokalizimi i sektorit te modes ne itali dhe mundesite qe hapen per ne

IL SOLE 24 ORE - 29 settembre 2003

Ombre estere sulla piccola impresa

di EMANUELE SCARCI


Un futuro sempre più vicino con cervelli e centri direzionali in Italia ma forse con meno stabilimenti e addetti nelle fabbriche e negli uffici. In altre parole, il recupero di competitività delle Pmi passa attraverso la delocalizzazione: è questo il rischio che emerge dalle opinioni espresse da alcuni imprenditori e top manager.

Alcuni imprenditori suggeriscono che il marchio del made in Italy andrebbe riservato solo alle produzioni realizzate interamente in Italia, dubitando che ciò si traduca in una perdita secca di quote di mercato. Altri sottolineano che l'Italia dovrebbe concentrare i pochi fondi disponibili per la R&S in segmenti precisi della tecnologia. Intanto però la propensione alla delocalizzazione sembra destinata a crescere con l'allargamento della Ue e l'abbattimento della barriere commerciali residue nell'ambito della Wto.

Se il decentramento delle fasi produttive a minore valore aggiunto è molto diffuso nei Paesi industrializzati, nei fatti il processo in Italia sembra segnare il passo: nel 2002 i nostri investimenti all'estero si sono fermati, secondo l'Unctad, a 17 miliardi di dollari, meno della Spagna (18), lontani da Germania (25) e Olanda (26) e lontanissimi da Francia (62) e Usa (120).

Del milione di nuovi occupati generati in Italia nell'ultimo triennio, gran parte è attribuibile alle piccole imprese. Oggi oltre il 90% delle imprese manifatturiere ha fino a 9 addetti e solo 1.500 (4.400 in Germania) superano la soglia dei 250. Tuttavia questa straordinaria vivacità imprenditoriale si concentra nei business (tessile-abbigliamento, calzature, arredamento e idraulica) più esposti alla competizione dei Paesi emergenti. Uniche eccezioni significative la meccanica strumentale e gli elettrodomestici, dove la concorrenza si basa soprattutto sulle soluzioni personalizzate e sull'innovazione.

Vantaggi d'Oriente. «In Italia - sostiene Fabrizio Sorbi, presidente e azionista di Proel - o si riducono i vincoli e il costo del lavoro oppure molte aziende decentreranno una parte della produzione». La società abruzzese (16 milioni di ricavi nel primo semestre), specializzata in strumentazioni audio, gestisce tre stabilimenti (con 1.650 addetti) in Cina che producono cavi, connettori, elettronica e hardware, poi assemblati in Italia. Inoltre in ottobre verrà inaugurato uno stabilimento in Romania per la produzione di casse acustiche che servirà il mercato dell'Est. «L'effetto euro - sostiene Sorbi - ha allargato il gap dei costi: oggi un operaio cinese costa 68/75 dollari, compresi assicurazione, contributi, due pasti e il dormitorio, come da contratto. Per un impiegato si sale a 100/150 dollari».

Anche per Pierluigi Marinelli, managing director di Terranova, «la delocalizzazione nell'Est e in Cina è solo questione di tempo: in azienda ne parliamo tutti i giorni. Oggi realizziamo il 90% della produzione in Italia, ma in seguito convertiremo le aziende del network in creative o modelliste». Terranova, con i suoi 311 negozi in 27 Paesi, produce abbigliamento di fascia media a prezzi accessibili e ha appena siglato un accordo con il governo di Pechino per aprire direttamente negozi monomarca in Cina. «L'effetto euro - conclude Marinelli - è stato devastante, ma nonostante tutto rimaniamo in Italia perchè un rialzo dei dazi vanificherebbe il vantaggio della delocalizzazione. Tuttavia quando la Wto annullerà le quote d'import e si apriranno i mercati delocalizzeremo la produzione».

Giovanni Campolo, amministratore delegato di Private Equity Partners, sottolinea la necessità «di una politica economica europea: ci sono voluti anni per imporre un dazio del 30% sull'import di carbon coke dalla Cina, dove pestano il carbon coke con i piedi. Rimane però ancora un gap enorme: un esempio? La Trevisan, leader nella progettazione di impianti per la verniciatura di profilati di alluminio, ha raggiunto il break even nel suo stabilimento cinese in tre mesi».

Marchio Doc. Per Savino Rizzio, titolare della piemontese Vir Valvoindustria, «non è corretto realizzare buona parte delle valvole idrauliche all'estero e poi apporre il marchio made in Italy, che è garanzia di qualità. Come presidente degli industriali dell'Anima, ho portato il tema del marchio d'origine nella giunta di Confindustria e vedremo cosa succede. Mi rendo però conto che gli interessi sono diversi: i cinesi ci copiano le valvole ma poi comprano le macchine italiane. E lo stesso vale per il meccanotessile e altri settori».

Agli analisti che ritengono indifendibile il business tessile, Stefano Sassi, direttore generale del tessile di Marzotto, risponde che «le produzioni a minore valore aggiunto sono state decentrate all'estero, la lana di qualità della Guabello rimane in Italia e il cotone dei Tessuti di Sondrio è prodotto sia all'interno che all'esterno: una risposta flessibile che fa bene anche ai margini».

Giovanni Briccola, titolare della Bric's (pelletteria e valigeria), avverte che «coloro che si ostinano a produrre in Italia rischiano di essere inglobati da qualche maison: non ci si può opporre a chi vende borsette a tre euro. La Bric's ha decentrato nei Paesi emergenti le produzioni a minore valore aggiunto investendo però sul marchio e sulla distribuzione. In dieci anni siamo passati da 7 a 30 milioni di ricavi».

Ma l'Italia è ancora in tempo per ritagliarsi un ruolo nell'hi tech? «Mi riesce difficile pensare - replica Mario Rizzante, presidente di Reply, società dell'e-business - a multinazionali italiane in concorrenza con i colossi globali dell'hi tech. Oggi per noi imprese dell'information technology è difficilissimo andare all'estero: manca un brand Paese sulla tecnologia avanzata». E Rizzante suggerisce un bagno di realismo: «Non ha senso disperdere in mille rivoli quelle poche risorse destinate alla ricerca: molto meglio concentrarle su segmenti specifici».
 

komino

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Re: delokalizimi i sektorit te modes ne itali dhe mundesite qe hapen per ne

Il Nordest all'estero vale già ...
di Maurizio Crema

Il Nordest all'estero vale già un terzo dell'internazionalizzazione italiana e 90mila imprese ma è a una svolta: troppe imprese e poco spazio. Delocalizzare diventa quindi una necessità e non solo un vantaggio competitivo. E Unicredito, che proprio ieri ha chiuso l'intesa per acquisire l'ultimo 17,34% dell'ex Demirbank Romania, si candida a essere una delle porte per la nuova Europa ponendo a Treviso la base d'appoggio per le aziende della delocalizzazione da sviluppo.«Si stanno formando le condizioni per una nuova ondata di investimenti che potrebbero portare il Nordest e l'Italia a superare almeno in Europa Centrale e Orientale l'attuale gap tra l'importante ruolo svolto nell'interscambio commerciale e il più limitato peso negli investimenti diretti - osserva Franco Benincasa, vice direttore generale di Unicredito - e questo anche per cause nuove come la mancanza di manodopera e la saturazione di aree industriali».
I grandi venditori si stanno trasformando in grandi investitori. «Non è un caso che arrivano dal Nordest il 48% delle nuove iniziative italiane specie in Polonia, Romania, Slovacchia, Ungheria e Albania - sottolinea il vice direttore della banca italiana più presente nell'Europa dell'Est dove controlla istituti di credito in Polonia, Bulgaria, Romania, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Slovacchia, Repubblica Ceca, Turchia - oggi ci troviamo a registrare ancora un maggiore interesse alla delocalizzazione produttiva da parte di più ampi strati di imprese del Nordest a cui paiono associarsi molto più efficacemente di un tempo istanze istituzionali, finanziarie e di categoria. Treviso e il triveneto hanno bisogno dell'Est e all'Est possono dare molto esportando il loro modello di sviluppo come veicolo di modernizzazione, di integrazione e di riproduzione delle esperienze di successo»».

La delocalizzazione spicciola sta diventando internazionalizzazione di squadra. «Noi italiani abbiamo vantaggi competitivi rispetto a tutti gli altri paesi dell'area dell'euro - commenta Alessandro Profumo, amministratore delegato di Unicredit, banca che nel Nordest controlla Cariverona, Cassamarca e Cassa Trieste - perché sappiamo gestire la diversità, siamo una nazione estremamente giovane con mille campanili. I tedeschi per esempio fanno molta più fatica di noi a capire e accettare un'organizzazione economica diversa, tradizioni, costumi, leggi molte lontane dalle loro come in questi paesi».

«A mio parere il nostro vantaggio sta in primo luogo nel territorio, nell'interagire di competenze sedimentate, risorse valorizzate, dal fatto che più di un quarto delle popolazione attiva è un imprenditore o un lavoratore autonomo - aggiunge Benincasa - qui c'è una bassa dipendenza dalla domanda delle amministrazioni pubbliche. Questo mix di variabili, tenute vive da una elevata mobilità sociale e da un forte spirito di indipendenza e di autorealizzazione, ha aperto l'economia locale allargandone gli orizzonti progettuali e operativi».

Benincasa è ottimista, non crede che questa migrazione di produzione depauperi il Triveneto: «Si è innescato così un circolo virtuoso dello sviluppo cumulativo che ora è in grado di alimentarsi sia all'interno che all'esterno e che può guardare senza drammi alla delocalizzazione perché il Nordest ha accumulato vantaggi competitivi che cominciano a richiamare investimenti stranieri». Dunque le spalle sono coperte. Rimangono le critiche degli imprenditori in missione all'estero, che ancora oggi non si sentono adeguatamente appoggiati dalle banche ora italiane come la Bulbank, leader nel mercato bulgaro e all'85% di Unicredito. «Le aziende che si rivolgono ai nostri sportelli non hanno problemi - risponde secco Benincasa - il credito verrà concesso senza problemi. Ma anche in Bulgaria rimaniamo attenti ai nostri crediti e a chi li chiede».
 
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